Prima c’è un brandello di frase che da un po’ di tempo irrompe tra i pensieri, una vocina che mi sussurra: “…dal profondo”. Non una frase compiuta, solo una porzione, come un coccio di un vaso rotto. Nessun soggetto e nessun predicato, solo un moto da luogo, che si propone come risposta a una domanda che è ancora in gestazione. Dal profondo. Cosa? Forse, nell’essere testimone di un “succedere” che vorrei comprendere, la frase mi viene in soccorso, ma ha il sapore di una risposta. Qual è la domanda? Non lo so… E allora parliamo del “succedere” che non riesco a comprendere. Qual è la forma di ciò che sta succedendo? E come si muove? In che modo attraversa le nostre vite, mentre siamo intenti a dare una forma alle nostre vite? Gli esperti di storia e geopolitica continuano a tradurre in analisi e previsioni ciò che accade nel mondo, ma siamo sicuri di avere a che fare con qualcosa che conosciamo? Quanto siamo capaci di comprendere gli spasmi che agitano il segmento di storia che stiamo vivendo? Senza nulla togliere agli esperti di geopolitica, siamo sicuri che, oltre al clima, non stia mutando anche l’istinto di massa? Se così fosse, la scienza della politica internazionale sarebbe utile come lo può essere la dermatologia per chi è affetto da un male psicosomatico.
Certo una pomata può servire a lenire il disagio, ma si resta in superficie mentre il cuore del problema continua a pulsare, e quanto prima, a dispetto di tutte le pomate, il sintomo tornerà a farsi sentire, come un rumore di fondo… dal profondo. Siamo sicuri, per fare un esempio, che le manifestazioni pro-palestina avvenute in tutto l’occidente siano dovute a genuine e consapevoli posizioni politiche? E se fosse un riflesso? E se il palestinese di Gaza fosse diventato il simbolo di chi subisce uno schiacciante stato di cose che non concede prospettive di uscita, e che non è Gaza chiusa tra Israele, Libano e Mediterraneo, ma una Gaza più grande, i cui confini non sono geografici ma sociali? E se la vita-incubo a Gaza fosse diventata l’archetipo della vita precaria? E di che precarietà stiamo parlando? Non più la precarietà quale condizione in cui versano gli strati poveri della società, ma come perturbazione imprevedibile dello stato delle cose a tutti i livelli, generata da fattori di diversa natura eppure agenti nello stesso tempo.
E che, quando arriva, proprio come un evento meteorologico, investe tutti senza riconoscere privilegi di sorta. Si è visto che in molte aree del nostro caro occidente la fortuna sta sorridendo alle destre, e se ne parla come se i popoli avessero acquisito la consapevolezza che tutto ciò che non è destra non funziona. E di fatto non si può dire che negli ultimi trent’anni le sinistre non abbiano deluso. Per quanto riguarda l’Italia poi, il mio parere è che l’imputazione a carico della sinistra decade per estraneità ai fatti, in quanto unico vero “attore assente”. E allora tutti a destra? E se fosse un inconsapevole voler punire chi ha tradito perfino le più timide aspettative? Veramente vogliamo credere che tutti i voti raccolti dalle destre siano frutto di autentico e consapevole discernimento politico? La mia percezione è che l’orientamento di massa stia ricevendo, dal profondo inconsapevole, spasmi e algie che non si interpretano facilmente discutendo di sondaggi elettorali e conflitti istituzionali. Quando anche le destre non avranno funzionato gli spasmi diventeranno convulsioni e allora sarà meglio aver capito come agire nel profondo. La rapida evoluzione climatica sta trasformando il pianeta e, viverci, presto vorrà dire qualcosa che ci ostiniamo a non voler capire. Ed è abbastanza chiaro che esondazioni e trombe d’aria non risparmiano chi è titolare di American Express Gold. E allora la stabilità di ciò che è la nostra idea di vivere è ormai già precaria. Mi chiedo se qualcuno, tra gli addetti ai lavori, sia consapevole di quanto trasversale sia il fronte dello spasmo.
Che investa il mondo del “lavoro” credo non vi siano dubbi: la parola stessa sta per diventare sinonimo di precarietà. E l’ideale della pace? Pollice verso il basso. A quanto pare il desiderio di pace condiviso da miliardi di persone interferisce negativamente con gli interessi di lobby che scrivono la sceneggiatura di questa democrafiction. La politica? Una volta scritturati nel cast della fiction, si fa quello che prevede il copione, ognuno il suo ruolo, ognuno le sue battute, puntata dopo puntata, il buono, il brutto e il cattivo, talk show da oscar per colonna sonora e il sacro spazio pubblicità a scandire il ritmo. Qualcuno mi sa dire come si esce da Gaza centro? Vorrei uscire. Uscire dal set di questa fiction in cui, tra polveri sottili e sproloqui osceni da seconda repubblica, respirare è ormai esercizio acrobatico. Forse, a voler uscire, siamo più di quanto possa sembrare. Forse siamo in tanti a volere che la parola “domani” fosse correlata a colori pastello e non al grigio cupo che vediamo ormai da troppo. La scimmia in giacca e cravatta non ha più soluzioni nella sua ventiquattrore di pelle, e infatti ha smesso di essere un interlocutore. Resta lì, ipnotizzata dalla sua immagine riflessa nell’acqua dello stagno, mentre flora e fauna nel mondo asfittico dello stagno si estinguono per mancanza di futuro. Forse siamo in tanti a voler uscire. Non lo sappiamo in superficie, ma ce lo dice qualcosa che arriva dal profondo.
E se fossimo in tanti, troppi, a voler uscire da Gaza? Qualcuno tra gli “addetti ai lavori” ci sta pensando? Ricordo molto bene cosa voleva dire, in termini di orizzonti, essere ventenni negli anni ottanta: chi più incline allo studio, chi meno, chi più intraprendente, chi meno, comunque avremmo preso tutti una strada. E la strada ci avrebbe portato in un dove, non sapevamo quale, ma avevamo una sensazione travestita di certezza che c’era un dove alla fine di ogni strada. Non credo che il ventenne di oggi percepisca esattamente la stessa cosa. Siamo finiti in un labirinto piccolo e affollato, in cui il gioco innocente di inseguire la felicità è diventato anacronistico e sospetto. Come a Gaza. Talmente piccolo che guardare al di là dell’oceano restituisce solo l’inquietante immagine di noi stessi allo specchio. Quando l’occidente procedeva sulla dorsale Reagan -Tatcher- Kohl nel salone del presente si spalancavano enormi finestre che offrivano rassicuranti visioni del futuro. Una conduzione, quella, di orientamento conservatore e a volte reazionario, ma che almeno produsse modelli percorribili in uno scenario geopolitico a rischio di conflitto nucleare globale. Le visioni rassicuranti erano bugiarde ma funzionavano, le visioni di futuri migliori erano il vero carburante delle nostre anime. Allora il motore capitalistico a consumismo spinto vestiva la maschera del benessere, capelli cotonati e febbre del sabato sera.
Oggi quel motore mostra il marchio sincero e spietato del capitalismo predatorio, va a consumismo compulsivo, e le balere del sabato sera sono state sostituite da centri commerciali. Oggi il salone delle finestre spalancate è diventato inaccessibile ai molti, forse perché semplicemente abbiamo dimenticato il percorso per arrivarci. E indugiamo nel piccolo labirinto in cui la scimmia in giacca e cravatta pretende di “guidarci” continuando a tirare fuori dalla sua ventiquattrore soluzioni vecchie che furono efficaci in un mondo vecchio, mentre gli individui di un “oggi ibrido” cominciano a sentirsi come un pulcino costretto in un uovo. Un tempo quell’uovo era stato sufficiente a garantire nutrimento e protezione, quando il pulcino era solo un embrione. Ora il pulcino deve scegliere: o rompe l’uovo a colpi di becco, o muore. Provate a immergervi, per qualche attimo, in un silenzio mentale che vi permetta di ascoltare ciò che va al di là dei pensieri. Sentite? Lo sentite quel debole picchiettio? Il pulcino, ormai asfittico, obbedisce all’istinto di conservazione. Non è consapevole che l’uovo, lo stesso che ha garantito nutrimento e protezione, ora lo sta uccidendo, ma dal profondo essenziale del suo essere arriva, istintivo e incontrollabile, l’impulso di rompere a colpi di becco. Smantellare la struttura calcarea che ormai non fa altro che privare di prospettive chi ha diritto a dispiegare le ali. Il futuro del pulcino non può che scaturire dallo smantellamento dell’uovo. Politici, sacerdoti dell’alta finanza, burocrati del motore inceppato, farmacocrazia, vestali del dio del profitto e architetti della liturgia del potere, dovrebbero forse chiedersi se la vecchia fiction piaccia ancora a qualcuno. Io non sono un addetto ai lavori, vorrei solo sapere come si esce da questo set.
Massimo Cardona