Una giovane donna uccisa con 75 coltellate. Un assassino condannato all’ergastolo. E un Paese che insorge non per chiedere giustizia – quella è arrivata – ma per criticare i giudici che, nel motivare la sentenza, hanno escluso l’aggravante della crudeltà. È l’ennesima dimostrazione di quanto il dibattito pubblico italiano sia ostaggio della logica binaria dell’indignazione, spesso disinformata, sempre più allergica alla complessità del linguaggio giuridico.
Nel caso Cecchettin, i giudici della Corte d’Assise di Venezia hanno ritenuto che Filippo Turetta – pur autore di un gesto efferato e crudele nel senso comune – non abbia agito con la volontà giuridicamente rilevante di infliggere sofferenze gratuite e sadiche. L’omicidio, hanno scritto, è stato compiuto con spietata lucidità, ma in modo maldestro, disordinato, e non con l’intenzione deliberata di seviziare la vittima.
Una valutazione in linea con la giurisprudenza consolidata, già affermata dalla Cassazione nel 2015: la mera reiterazione dei colpi, se non motivata da volontà sadica, non costituisce aggravante per crudeltà.
È bene ribadirlo: il diritto penale non è vendetta. Non è nemmeno il luogo dell’emozione. È il luogo della prova, della proporzione, della precisione. E la giustizia, per quanto difficile da accettare, non è uno strumento di rivalsa. Quando l’informazione rinuncia a spiegare e rincorre il clamore, quando i social si sostituiscono ai tribunali, si genera solo una società più confusa, meno consapevole, e quindi più fragile.
È in questo clima che va collocato un altro passaggio preoccupante: l’annuncio, con grande enfasi simbolica, dell’introduzione del reato di "femminicidio" come fattispecie autonoma. Una norma proposta l’8 marzo scorso dal governo, salutata come una “svolta epocale”. In realtà, è un provvedimento gravemente sbagliato.
Per due ragioni: è inutile e incostituzionale.
Inutile, perché nel nostro ordinamento esistono già aggravanti specifiche per i delitti con movente sessista o contro le donne. Omicidio aggravato da futili motivi, da legami affettivi, da motivazioni di genere: tutte circostanze già previste e punite duramente, fino all’ergastolo. Come dimostra anche il lavoro quotidiano delle procure, come quella di Marsala, che ha illustrato in un recente bilancio la capacità di perseguire con efficacia i reati contro le donne con gli strumenti già esistenti (ne abbiamo parlato qui).
Ma la proposta è anche incostituzionale, perché rompe il principio fondamentale dell’uguaglianza di fronte alla legge. Cosa direbbe una madre il cui figlio è ucciso per motivi razziali? Cosa dovrebbe pensare la famiglia di una vittima di mafia? O un padre ucciso dalla moglie? L’idea che l’omicidio di una donna “in quanto donna” valga di più, in termini di pena e tutela, è una pericolosa deriva. È il trionfo della gerarchia delle vittime, è il naufragio del diritto.
L’omicidio è sempre una tragedia. Ma costruire leggi penali sulla scia dell’emozione collettiva è un errore grave. La proposta sul femminicidio come reato autonomo è scritta in modo vago, indeterminato, populista.
Il ministro Nordio, che dovrebbe tutelare la legalità e la logica liberale del diritto, appone la sua firma a un testo che crea una figura di reato ontologicamente nuova, una forma di omicidio che – per la prima volta – si definisce non per l’atto commesso, ma per la persona della vittima. È il trionfo del diritto penale simbolico. È una regressione culturale.
I femminicidi sono un dramma vero, grave, inaccettabile. Ma non si combatte la violenza di genere con il panpenalismo, né con norme inefficaci e incostituzionali. Serve prevenzione, formazione, educazione. Servono centri antiviolenza finanziati, forze dell’ordine formate, procure attrezzate. E serve una giustizia che funzioni, non che venga piegata alla furia moralistica del momento.
Perché è facile battersi il petto in aula parlamentare o scrivere leggi “forti” per fare titoli. Più difficile è affrontare il problema con gli strumenti giusti: quelli che la Costituzione, ancora oggi, ci affida.
Giacomo Di Girolamo