La Buona Novella
La Buona Novella è un concept album nel quale Fabrizio De Andrè racconta la storia di Cristo tramite la fonte traversa dei Vangeli Apocrifi. Cosa sono i Vangeli Apocrifi? Sono dei Vangeli, talvolta anche anteriori ai quattro Canonici, che raccontano parti della “novella” non rappresentate dai Vangeli ufficiali. Negli Apocrifi è dato spazio all’infanzia di Maria, alla peripezia di Giuseppe, al ruolo delle donne, delle madri, nella storia della salvezza, alla reazione del popolo di fronte alla Via Crucis, o anche al nome dei due ladroni, Dimaco e Tito, di cui la storiografia ufficiale ha sempre taciuto le generalità. Gli Apocrifi, dunque, descrivono parti della Rivelazione che i Canonici tacciono. Perché De Andrè li mette al centro delle sue canzoni? Perché – inutile ricordarlo – Faber amava parlare degli ultimi, degli spostati, dei marginali. Poter quindi parlare di Cristo, senza mai metterlo in scena, cantando la sua “assenza”, e indugiare sui “comprimari” della Novella, è una occasione ghiotta per parlare del figlio dell’uomo, attraverso le vie tortuose del popolo.
Così, nelle nove canzoni che compongono l’opera, Maria ha un’infanzia da verginella rinchiusa nel tempio, cui i Sacerdoti - quasi in una bisca – cercano marito. Giuseppe, “reduce del passato”, sceglie di prendere in sposa questa “bambina” e di condurla a casa propria. Sono nozze quasi “bianche” perché subito dopo Giuseppe va via di casa per lavori che lo attendevano in Giudea. Starà fuori per anni, nota De Andrè! Maria sogna un angelo che le confonde la mente. Lontana dall’annunciazione canonica, la Maria di Faber ricorda solo di aver volato “sopra orti e case”, di aver “sognato ma senza aver dormito”, e infine di sentire nel ventre il risultato di questo folle volo: è incinta. Giuseppe si butta nel suo mestiere di falegname, intento a costruire stampelle per chi torna dalla guerra di Nubia, o croci per i Romani. Eppure, una di quelle croci “abbraccerà il figlio di Maria”. Condannato da “quel brav’uomo di nome Pilato” per aver annunciato l’eguaglianza tra gli uomini, il “figlio di Maria” è condotto sul monte delle croci, tra sputi della folla e madri che sono state vittime di Erode, colui che ne trucidò i figli per ammazzare il messia. Hanno atteso trent’anni per vedere morire l’unico infante che si salvò a quella strage. Tra le madri, anche quelle di Dimaco e di Tito, ladrone buono e ladrone cattivo, insofferenti al pianto di Maria: se la donna sa che il figlio resusciterà, che senso ha il suo pianto? Eppure la Maria di Faber reclama il diritto di piangere per “le mani, la fronte, il collo” del suo figlio. Il Golgotha si chiude con il canto lucido e disperato di Tito che – uno per uno – distrugge tutti i comandamenti. Dalla sua croce tutta umana, senza possibilità di resurrezione, mette in ombra la stessa croce di Cristo, paradossalmente eretta per gli ultimi.
Nota di Regia
La “Buona Novella” di Fabrizio De Andrè parla della figura di Gesù Cristo a partire dai cosiddetti Vangeli Apocrifi; in effetti dire che “parla” di Cristo è una affermazione da dizionario letterario, perché Gesù, in quest’opera, come è noto, è del tutto assente come “personaggio”. Certo, tutto ruota intorno a lui, la visitazione, l’annuncio dell’angelo, il concepimento, la paternità di Giuseppe, fino alla predicazione e alla via della croce… Eppure Lui non parla mai, non ha un canto, un apologo, una “tirata” scenica. Gesù è protagonista “suo malgrado”, al centro della vita di tutti gli altri che lo circondano o che condividono con lui qualcosa, lo stesso tempo, un tiranno folle di nome Erode, o una croce romana!
Questa è la geniale intuizione che Fabrizio De Andrè, vero poeta della scena culturale italiana, mette al centro della sua scrittura. Descrivere volti, stati d’animo, fedi e rancori, attese e ilarità, che si strinsero come il laccio di una bisaccia intorno alla storia del Messia non riconosciuto dai Gudei. La storia degli “apocrifi”, oggi vero centro di studio per la ricostruzione del Cristianesimo delle origini, è una storia di mancanza, di compresenze, di comparizioni misteriose.
Nel ventre della storia, da giare sigillate, semplici pastori hanno portato alla luce, negli ultimi anni, vere biblioteche sepolte nel deserto: dalle loro voci De Andrè ha tessuto un unico canto. Il problema della messa in scena teatrale di un simile lavoro musicale era quasi insormontabile: non volevamo “cantare” De Andrè, non solo per ragioni sceniche, ma anche nella convinzione che chiunque lo abbia fatto abbia sempre sfigurato nel raffronto inevitabile con un maestro la cui spinta inarrivabile è di natura interiore e non virtuosistica o vocale.
Abbiamo scelto, allora, di lasciar fare al nostro lavoro l’opera del disincanto: così che De Andrè potesse e entrare in un teatro senza occuparlo tutto solo con il suo nome. Abbiamo deciso di provare a dare corpo e azione a quelle meravigliose parole, per aggiungere il nostro sudore alla Novella del Maestro, lasciando solo precedere l'opera da una mia "Disputa Pro Veritate" che - nella violenza della lotta - testimonia appunto dell'elisione della Verità, quand'essa si reputi "ultima" e "definitivia".
Giacomo Bonagiuso
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