Lavorare con la cultura ti dà quel privilegio di poter - a volte - avere punti di osservazione diversi e non solo, con visioni che preconizzano ciò che poi potrà essere.
E’ un mondo di una concretezza sconcertante a dispetto dei più che pensano sia un ambito effimero o peggio, e quella intangibilità concreta ce la danno i libri il teatro il cinema e le varie forme di espressione della creatività, tutte dettate dal confronto col vivere ogni giorno.
Giovedì scorso un’articolo sul Corriere della Sera di Emilio Isgrò - artista siciliano - in vista di una mostra che la Città di Scicli gli dedica, e riflettendo su alcuni ragionamenti - tra ricordi di Vincenzo Consolo, o di Ludovico Corrao e le Orestiadi (ci torno poi) - ammiro di quest’uomo la positiva visione del guardare oltre comunque, e la metafora sarà una sua installazione:
“Non l’Opera dei pupi ma l’Opera delle formiche, non più la retorica sicilianista, bensì le umili formiche che offrono la loro intelligenza operosa a sostegno di un Paese che deve entrare tutto intero in Europa se vuole pesare qualcosa. Insomma la Sicilia che lavora e produce. “
Pesa come un macigno la fotografia - che stiamo vedendo da qualche giorno - di Mahmoud Aijour di nove anni ritratto da Samar Abu Elouf fotografo del New York Times ( scatto che è valso al fotografo il World Press Photo come Fotografia dell’anno), e pesa perché forse è una inutile sintesi di quanto stiamo vivendo da tempo alle porte dei nostri confini; eppure un signore di quasi novant’anni riesce ad esprimere la sua arte e la visione di un contemporaneo proiettata nel pieno di una crisi di identità di quello che è stato il sogno di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, la nostra Europa.

La nostra Isola non può più accontentarsi di essere metafora di se stessa, custodire sepolcri imbiancati o peggio metro e vanto della propria incapacità, e mi riferisco ad una delle due occasioni uniche che il Ministero della Cultura ha concesso alla Sicilia: Agrigento Capitale della Cultura 2025, e Gibellina Capitale del Contemporaneo per il 2026.
Ho scritto all’indomani della presentazione alla stampa a Palazzo Grazioli a Roma del programma di Agrigento 2025, e alcune sensazioni erano plastiche - oggi tridimensionali nel fallimento - e mi dànno all’idea di cosa la politica sia stata in grado di fare.
Il direttore che ha redatto i due dossier (Roberto Albergoni) ha rassegnato le dimissioni in palese contrasto di visione ad Agrigento, e per evitare il peggio anche dal gruppo di lavoro a Gibellina.
Ora chiedo, ma la politica perché non limita il campo di azione a delineare un perimetro blindato affinché chi sa possa operare nel migliore dei modi e nell’interesse superiore dei territori? La risposta è nella domanda, e solo uno sciocco può pensare che tramite la visione di una Cultura alta noi possiamo disincagliarci da una metafora insopportabile.
Eppure il dibattito incredibile e sterile di cosa sono stati capaci di fare, e chiedo sempre: ma è normale tutto ciò?
No. E fa male che non ci sia alcuna forma di ribellione a tanta insipienza, e quel titolo ormai è ridotto a non so cosa, e quando ci sarà il passaggio di consegna a Pordenone proporrei un viaggio premio per far capire come un territorio è stato salvato dal proiettare la Cultura come sistema di crescita economica e sociale.
Le Orestiadi, quasi le dimenticavo: Isgrò - lo scrive lui stesso - fu aspramente criticato al tempo per la messa in scena dell’Orestea (che ricordo ai più, inaugurò allora la stagione felicissima delle Orestiadi a Gibellina) e scrisse in siciliano o forse in una lingua del tempo di Federico II, con la regia di Peter Stein e l’interpretazione di attori che recitavano con le loro inflessioni, e questo grammelot creativo - che era ed è stato il manifesto di Corrao con la sua visione - era apertura al mondo in un tempo di chiusure e violenze.
Esattamente come è oggi, e ci dobbiamo necessariamente affidare agli artisti per una lettura aderente, e con la logica del fare premiare e riconoscere chi fa.
giuseppe prode
p.s. pillola di un quotidiano: ieri è stata liberata da erbe spontanee una panchina, quella dedicata a Giulio Regeni.
Ripulirla da sterpaglie è stato un gesto apparentemente semplice un atto di amore, far comprendere ai più come il bene comune elevato con piccoli gesti del fare, possa diventare Cultura di comunità.
Grazie a Salvatore Inguì e a Giampiero De Vita, e a chi adesso vorrà guardare la linea dell’orizzonte seduto su quella panchina, che non è mai stata tale