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15/04/2025 00:00:00

 "Lettere di scuse e femminicidi: il pericolo di un nuovo rituale mediatico"

Gentile direttore, l’editoriale: “75 coltellate, nessuna crudeltà? Il caso Cecchettin, la sentenza su Turetta e il Paese che dimentica il diritto”, dal punto di vista dell’analisi e delle argomentazioni a sostegno del fatto che “il diritto penale non è vendetta. Non è nemmeno il luogo dell’emozione. E’ il luogo della prova, della produzione, della precisione”, difficilmente si presta a essere contestato. Ma il femminicidio, circa 150 casi all’anno in Italia, è un fenomeno psicologico e sociale di enorme vastità che riguarda le vittime e le loro famiglie, gli stessi congiunti di chi ha commesso il crimine. Riguarda l’intera comunità e tutte le Istituzioni.

Di fronte a un contesto così ampio, così spinoso, così drammaticamente complesso, allarmante e variegato, diventa quasi impossibile trovare qualcuno che abbia una reazione serena e pacata, anche se non coinvolto direttamente. Le stesse modalità di esecuzione dell’atto omicida lasciano il più delle volte sbigottiti e incapaci di dare una spiegazione, se non quella ormai assodata che una delle motivazioni più frequenti del femminicidio è l’incapacità dell’uomo di sopportare la separazione, cioè la minaccia e la rottura della coppia. Spesso si ha l’impressione di avere a che fare con manifestazioni partorite da una mente avvolta da una sorta di enigma avvolto dal mistero, impensabile che possa appartenere a una mente umana. Anche gli stessi psichiatri, che si presume conoscano a fondo il problema, non sono in grado di tenere i nervi saldi in presenza di un terribile evento, come quelli che danno luogo a un femminicidio.

Mi è capitato di seguire una trasmissione televisiva in cui Vittorino Andreoli, un eminente scienziato della psichiatria, rispondere con un impulso degno “della logica binaria dell’indignazione, spesso disinformata, sempre più allergica alla complessità del linguaggio giuridico”. E io aggiungerei anche e soprattutto degli stessi principi della scienza. Detto tutto questo, voglio ricordare che da qualche giorno stiamo assistendo al racconto dell’omicidio di Ilaria Sula, ventidue anni, studentessa di Statistica alla Sapienza, da parte di Mark Samson, il ragazzo di un anno più grande di lei, che dal carcere romano di Regina Coeli, ha mandato una lettera di scuse alla famiglia della ragazza, una missiva che la sera prima era stata esibita in esclusiva dal Tg1. Dalla chat si apprende che dopo averla uccisa ed essersi liberato del cadavere, Mark è andato a “mangiare una piadina” con una amica con cui ha parlato dei problemi che aveva con Ilaria.

La giudice, nell’ordinanza di custodia cautelare ha scritto: “Ciò che colpisce è il suo atteggiamento di forte autocontrollo e lucidità, in particolare nella fase successiva all’omicidio di Ilaria”. Riporto alcune parti della sua lettera: “ Scrivo dalla mia cella …. Ogni giorno penso all’atroce delitto che ho commesso e non so che cosa dire, ma soprattutto non so cosa mi sia accaduto … Sono impazzito di dolore e ho perso il controllo. …” La richiesta delle scuse è stata respinta dalla famiglia di Ilaria. Mi ha fatto riflettere la “sobria” risposta dell’avvocato della famiglia che, nel respingere la richiesta dell’atto di “clemenza”, concede tuttavia all’assassino “la libertà per ognuno di scrivere”. Poi soggiunge che anche i genitori e il fratello di Ilaria e tutti coloro che l’hanno conosciuta e voluta bene, hanno la libertà anche loro di non accettare le sue scuse.
Non so come inquadrare il comportamento dell’avvocato, quello che so e temo è che la lettera del giovane assassino di Ilaria possa costituire un cliché, un modello emulativo per altri criminali i quali, nel progettare un femminicidio, pensano di fare come ha fatto Mark Samson, cavandosela con una lettera di perdono.

Filippo Piccione