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15/04/2025 06:00:00

Le 75 coltellate di Turetta e la crudeltà consolatoria

 Noi no. Non saremo mai come lui. E con noi anche i nostri amici e parenti, i nostri figli, fratelli… Abbiamo bisogno di riconoscere in Filippo Turetta quel mostro prodotto da una subcultura che non ci appartiene. Allora non basta la condanna al massimo della pena e nemmeno che i giudici abbiano riconosciuto l’aggravante della premeditazione.

 

Non è sufficiente che non gli sia stata data nessuna attenuante, e che la sentenza dica che “ha agito con spietata lucidità”, distinguendosi per “l’efferatezza dell’azione, la risolutezza del gesto compiuto e gli abietti motivi di arcaica sopraffazione”.

Se ha ucciso Giulia Cecchettin con 75 coltellate, Turetta deve essere per forza crudele.

Ed in effetti lo è stato. È stato di una crudeltà infinita. Nessuno può avere dubbi. Ma a volte c’è una profonda differenza tra il linguaggio quotidiano e quello giuridico. E il rischio è che la logica e la ricerca di giustizia possano trasformarsi in un’indignazione viscerale, destinata ad ingrossarsi ed investire tutti, come una valanga incontrollata.

 

Una valanga alimentata anche dai social e dalla politica che, trasversalmente a tutti i partiti, ha promosso accese critiche nei confronti dei giudici che hanno emesso la sentenza.  

E poco importa che proprio in quella sentenza, la Corte d’assise abbia spiegato l’esclusione dell’aggravante della crudeltà, scrivendo che non ci sono “elementi da cui poter desumere con certezza, e al di là di ogni ragionevole dubbio”, sul fatto che Turetta “volesse infliggere alla vittima sofferenze gratuite e aggiuntive”. È il linguaggio giuridico che, ai non addetti ai lavori, può provocare un rifiuto, nella convinzione che 75 coltellate siano di per sé una chiara ed incontrovertibile evidenza dell’aggravante della crudeltà.

 

Anche il fatto che non basti contare il numero di coltellate per dire che c’è stata crudeltà e che occorre capire se l’aggressore voleva solo uccidere o se ha infierito in modo gratuito, con una violenza e una ferocia che andavano oltre lo scopo dell’omicidio, non cambierà una posizione che si è radicata attraverso un percorso emotivo forte. E che non si muoverà di un millimetro nemmeno leggendo quella parte della sentenza in cui viene sottolineato che le 75 coltellate siano state la conseguenza “della inesperienza e della inabilità” di Turetta, che “non aveva la competenza e l’esperienza per infliggere sulla vittima colpi più efficaci, idonei a provocare la morte della ragazza in modo più rapido e ‘pulito’, così ha continuato a colpire, con una furiosa e non mirata ripetizione dei colpi, fino a quando si è reso conto che Giulia ‘non c’era più’”. Anzi questa spiegazione, che è giuridica, non potrà che provocare ulteriore indignazione sul piano del linguaggio comune.

 

 

Ma questa attenzione ad un’aggravante non riconosciuta della crudeltà, che mette quasi in secondo piano una condanna all’ergastolo, aggravata anche dalla premeditazione, non può essere soltanto figlia dei titoli ad effetto dei giornali, della viralità social e della relativa intercettazione politica dei nostri onorevoli alla perenne ricerca di consenso.

 

C’è dell’altro.

Come dicevamo all’inizio, c’è il bisogno di allontanare da noi anche la più remota possibilità che ciò che ha commesso Turetta possa un giorno appartenerci, o appartenere a chi ci è vicino. Se lui è crudele, possiamo creare la necessaria distanza dal nostro mondo.

Un po’ come avviene con i serial killer. Anche qui, una netta linea di demarcazione tra “noi” e “loro” è rassicurante. Il fatto di sapere che sono pazzi, ci serve a sottolineare che noi no, non siamo pazzi. E quindi non faremo mai le cose orribili che hanno fatto loro. Le diagnosi psichiatriche che li riguardano hanno per noi un effetto consolatorio, anche se nello stesso tempo, tanti sono portati a pensare che siano soltanto un modo per evitare l’ergastolo o la pena capitale. E allora no, forse non sono pazzi, sono malvagi. Cattivi. Appunto, cattivi.

Tendiamo a resistere all’idea che tracce di rabbia, violenza, frustrazione, desiderio di controllo, possano essere presenti in modo più o meno residuale nella nostra psiche, appartenendo alla natura umana.

 

Tornando al caso di Giulia, questa focalizzazione sul mancato riconoscimento giuridico della crudeltà non rischia forse di inquinare il dibattito volto alla comprensione del fenomeno e alla riduzione dei casi di femminicidio?

Se, come si è spesso detto, la cultura patriarcale fa da sfondo a questi crimini, non sarebbe il caso di cominciare ad interrogarci sul tipo di autonomia o di dipendenza che tutti noi esercitiamo dentro la coppia (o dentro la famiglia)? Oppure sul modo che hanno i genitori di insegnare ai propri figli chi è un vero uomo e come reagisce all’abbandono?

L’impressione è che la strada da fare sia molto lunga, da percorrere con coraggio e responsabilità.

 

Egidio Morici



Editoriali | 2025-04-15 06:00:00
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Le 75 coltellate di Turetta e la crudeltà consolatoria

 Noi no. Non saremo mai come lui. E con noi anche i nostri amici e parenti, i nostri figli, fratelli… Abbiamo bisogno di riconoscere in Filippo Turetta quel mostro prodotto da una subcultura che non ci appartiene. Allora non basta la...