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13/04/2025 06:00:00

Moby Prince, 34 anni senza verità: Trapani ricorda i suoi morti e chiede giustizia  

"Mio fratello Antonino aveva 26 anni. Si doveva sposare, era tutto pronto. Era già scritto al municipio. Invece è finito bruciato vivo. E dopo 34 anni ancora non sappiamo perché". Giacomo Campo, fratello di Nino Campo, non usa mezzi termini. Non cerca consolazione, chiede giustizia. La notte del 10 aprile 1991, suo fratello – insieme ad altri tre trapanesi, Salvatore Ilari, Gaspare La Vespa e Rosario Romano – perse la vita nel rogo del Moby Prince. In tutto morirono 140 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio. Si salvò solo il giovane mozzo Alessio Bertrand.

Una tragedia mai chiarita, la più grave della marina mercantile italiana dal dopoguerra. Una ferita aperta. Una strage sul lavoro rimasta senza colpevoli.

Trapani ha ricordato le sue vittime con una cerimonia al cimitero comunale e un collegamento da Palazzo d’Alì con la commemorazione ufficiale tenutasi a Livorno. Ma è stata anche occasione per rilanciare la richiesta che accomuna 140 famiglie da oltre trent’anni: quella di sapere. Di capire chi sapeva, chi ha mentito, chi ha lasciato che centinaia di persone morissero senza essere soccorse.

"Mi ricordo tutto – prosegue Giacomo Campo – ero a Livorno già l’11 aprile. So cosa ho visto, cosa mi hanno raccontato, le bugie sulla nebbia, la bettolina fantasma, le coperture. Penso che quella notte stavano sbarcando armi americane. C’erano i satelliti, la Nato, i russi, tutti controllavano. Se vogliono, la verità la possono dire".

A rafforzare le sue parole è la testimonianza di Francesco Gianno, comandante di lungo corso oggi in pensione: "Io ero a Livorno dieci giorni dopo la sciagura. Durante una traversata ho chiesto l’autorizzazione per lanciare una chilanda in mare, in prossimità dell’Agip Abruzzo, per rendere omaggio ai morti. E voglio dire una cosa: non difendo la categoria dei comandanti, ma il comandante Chessa, sì. Perché era un ottimo comandante, e invece nei primi due processi è stato accusato ingiustamente di negligenza. Ma è falso. Quelle accuse erano vergognose".

Il comandante Gianno è lucido nel ricostruire le incongruenze: "Non c’era nebbia, come dissero allora. Era fumo. Altri comandanti che uscirono dal porto quella notte, tra cui un collega della mia stessa compagnia, dissero chiaramente che non c’era alcuna nebbia. E poi i soccorsi: dopo dieci minuti già si sapeva che la Moby Prince aveva avuto un incidente, eppure iniziarono a cercarla dopo un’ora. Un’ora! Soccorsero prima la Agip Abruzzo, dove non c’erano morti, né feriti. Sull’altra nave 140 persone morirono arse vive o asfissiate. È assurdo".

Le voci spezzate dal pianto dei familiari nella sala Sodano si sono unite in un unico, straziante lamento durante il collegamento in diretta con Livorno. Lì, altre famiglie, unite dal dolore per la perdita delle 136 vittime del Moby Prince, ascoltavano con profonda commozione gli interventi che ripercorrevano la tragedia e rinnovavano la richiesta di verità e giustizia.

Tra i nodi ancora irrisolti, emerge con forza la controversia sul presunto lasso di tempo disponibile per i soccorsi. Alcuni sostengono l'inevitabilità della catastrofe, basandosi su una ricostruzione scientifica che avrebbe concesso solo trenta minuti prima che le fiamme si propagassero in modo incontrollabile.

L'associazione dei familiari ha però respinto con fermezza questa interpretazione. Lungi dal parlare di una semplice omissione di intervento, le famiglie ribadiscono con dolore che la vicenda configura una vera e propria strage.

 "C’erano traffici di armi, eravamo nel pieno della Guerra del Golfo - racconta Gianno parlando anche dei possibili insabbiamenti - Da Livorno partivano carichi militari verso il Medio Oriente. Poi c’era il traffico di petrolio grezzo, quello che arrivava dai Paesi arabi e non veniva sempre registrato. La famosa bettolina “fantasma” non era un’invenzione: c’era davvero. Ma tutto è stato messo a tacere".

Sul dolore dei familiari, il comandante si ferma un attimo: "Cosa vuoi dire a una madre, a un fratello, a una fidanzata che non riescono nemmeno a riconoscere il corpo del proprio caro, bruciato o morto per asfissia? È qualcosa di tremendo. È una vergogna che ancora oggi, dopo tutto questo tempo, nessuno paghi".

Il sindaco di Trapani, Giacomo Tranchida, ha parlato con fermezza: "il problema non è solo ricordare i nostri concittadini. Il punto è che dopo 34 anni non c'è ancora un responsabile. Le famiglie chiedono la verità, chiedono giustizia. E se davvero lo Stato vuole assegnare una medaglia al valore civile alle vittime, allora che sia prima quella della verità".