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05/04/2025 18:10:00

  Mafia in Lombardia, per Michele Pace la Cassazione conferma l' associazione mafiosa, ma annulla sull’estorsione

La Corte di Cassazione ha confermato l’impianto accusatorio nei confronti di Michele Pace, indagato per associazione mafiosa, ma ha accolto in parte il ricorso della difesa annullando l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Milano sul capo relativo a un’estorsione, disponendo un nuovo giudizio.

La vicenda

Michele Pace, 39 anni, nato a Bollate ma originario della provincia di Trapani, era stato raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nel luglio 2024 per due capi di imputazione: partecipazione a un’associazione mafiosa radicata in Lombardia e una presunta estorsione ai danni di un imprenditore, Roberto Marin.

Secondo i giudici milanesi, l’indagato faceva parte di un “sistema mafioso lombardo” nato dalla collaborazione tra esponenti di Cosa nostra, 'ndrangheta e camorra. A questo sistema avrebbero aderito anche soggetti collegati al mandamento di Castelvetrano, fra cui Bernardo Pace – ritenuto promotore – e il figlio Michele, indicato come partecipe.

Il ruolo di Michele Pace

Per la Suprema Corte, nonostante la difesa contesti l’assenza di precedenti penali e di una “formale affiliazione” a clan mafiosi, gli atti dimostrano comunque un “stabile inserimento nella consorteria mafiosa” tramite il supporto logistico ed economico a soggetti già coinvolti in attività criminali. In particolare, è stata evidenziata la presenza di una rete di società riconducibili alla famiglia Pace, legata a operazioni sospette condotte in collaborazione con soggetti legati alla cosca Iamonte.

Estorsione, la Cassazione: “Motivazione carente”

La novità principale della sentenza è il punto relativo al reato di estorsione (capo 18). La Cassazione ha ritenuto insufficienti e poco chiare le motivazioni addotte dal Tribunale del Riesame per giustificare la sussistenza di gravi indizi a carico di Michele Pace in merito a quel fatto specifico. In particolare, viene citata una telefonata con l’espressione “se no, me lo brucio”, interpretata come indice di minaccia, ma priva – secondo i giudici – di concreti riscontri in termini di atti intimidatori successivi o partecipazione materiale.

La Suprema Corte ha quindi annullato l’ordinanza su questo punto, rimandando gli atti al Tribunale del Riesame di Milano per una nuova valutazione “che chiarisca se si sia trattato di una condotta penalmente rilevante o solo di parole senza seguito”.

Le altre contestazioni respinte

Tutti gli altri motivi di ricorso presentati dalla difesa sono stati respinti, inclusi quelli relativi alla contestazione dell’esistenza dell’associazione mafiosa e all’assenza di esigenze cautelari. La Cassazione ha sottolineato la presenza di numerosi elementi che dimostrerebbero l’effettiva capacità intimidatoria del gruppo criminale, anche nei confronti delle forze dell’ordine.



STUDIO VIRA | 2025-04-09 10:50:00
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