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28/02/2025 06:00:00

  Nino De Vita: nascere a Cutusìu

 [Grazie all’editore Le Lettere arriva oggi in libreria l’edizione definitiva, arricchita di molti inediti, della raccolta di poesie Cutusìu di Nino De Vita con la prefazione di Vincenzo Consolo. Noi oggi lo segnaliamo pubblicando una riflessione sull’opera dell’autore.]

 

di Marco Marino

Tautologia

Una tautologia è una frase in cui il soggetto e l’azione coincidono. Partirei, allora, da una tautologia. Per chi, o per cosa, faccio le cose che faccio? Per chi, o per cosa, respiro? Per chi, o per cosa, lavoro? Per chi, o per cosa, mangio?

Queste domande presuppongono un fattore esterno, uno stimolo che viene da fuori e condiziona la nostra esistenza. Prevedono un altro, chiunque o qualsiasi esso sia.

Cambia tutto se, all’inizio di ogni quesito, usiamo «perché» o «come»: in quel caso – «perché faccio le cose che faccio?» o «come faccio le cose che faccio?» – non indaghiamo fuori di noi, ma dentro di noi.

La domanda di fondo, per questa ragione, diventa un’altra.

Diventa: io basto? Io sono abbastanza?

Io

Nino De Vita pubblica una prima forma in prosa del suo testo «8 giugnu millinuvicentucinquanta» nel 1983 sulle pagine della rivista Lunarionuovo. Oggi quel testo, quarantadue anni dopo, nell’aspetto di un breve poemetto, viene ripubblicato nella sua edizione definitiva all’interno di Cutusìu (Le Lettere, 2025).

Si potrebbero scrivere tante cose in merito – e in effetti sono state già scritte, nella lunga vita del libro Cutusìu, dato alle stampe per la prima volta privatamente nel 1994. Perciò, non le ripeterò. Né per dire che il testo, in tanti modi, ha a che fare con l’io dell’autore – nato proprio l’8 giugno 1950. Né, di conseguenza, per trovare coincidenze tra la finzione letteraria e la realtà biografica.

In quel testo si parla di vita, di un «io» che nasce. Che nasce con difficoltà. Che nasce incontrando la morte. Parla di una madre sul punto di morire per dare alla luce il suo bambino. Parla di un dottore che prova a salvarla perché ormai dà per perso il bambino. Parla del bambino che sembra morto. E invece non lo è. Perché alla fine piange, ed è vivo.

Zoom

Mi piace pensare che Nino De Vita costruisca questo poemetto manzonianamente. Umberto Eco diceva che l’incipit dei Promessi sposi aveva a che fare con l’arte dello zoom: una visione aerea («Quel ramo del lago di Como…») che finisce per concentrarsi sui minimi particolari, sulle esistenze degli ultimi. L’opera di De Vita comincia in modo simile: dall’alto vediamo la stagione calda, il giardino, i bambini che giocano col fango, e così il lettore inizia a entrare, in profondità, nella storia, prima il padre fuori dalla porta, poi la madre, dentro casa, nella sua stanza, che urla, il bambino morto nel ventre. Per tutto il poemetto l’autore usa la terza persona ovvero una narrazione esterna, quella che ci fa capire che c’è una voce fuori campo che muove gli eventi.

Eccetto che alla fine, negli ultimi versi, quando sbaraglia il lettore, portando la narrazione alla prima persona, all’io: «’Un sacciu pi/ quantu.// Poi, finarmenti/nìvuru/ chiancii». Il racconto della vita passa dal narratore esterno al narratore interno: il bambino è diventato un io. «Finalmente», scrive il poeta, da morto diventa vivo.

Ripenso alle domande da cui siamo partiti, al «chi/che cosa» e al «perché/come», all’esterno e all’interno: questa terza persona e questa prima persona, questa narrazione che viene mossa dall’esterno e dell’interno, sono in conflitto?

Per due

Non a caso ho citato la prima versione del testo. Perché al di là del genere della prosa o della poesia, la vera differenza sta proprio nella comparsa dell’io.

Nel testo dell’83, la voce del bambino si fa presente non alla fine, come colpo di scena, ma già quando il dottore lo ritiene perduto. Il bambino prende voce dall’abisso materno e parla del più doloroso degli scambi, una vita per un’altra, lasciarlo morire per permettere a sua madre di vivere. Scrive così De Vita:

«Eu mortu pi' me' matri viva.

Idda un lu sapia. 'U gridu so' e 'u lamentu s'agghiungianu o gridu e o lamentu chi jeu 'n putia fari. Gridava pi' dui, si lamintava pi' dui; suffria, stancava, pi' dui».

Questo passaggio è stato rimosso, ma la sua aura continua ad aleggiare nei versi che restano. Mi sembra, infatti, che con «8 giugnu millinuvicentucinquanta» il poeta marsalese voglia mostrarci una cosa molto chiara: che l’io non basta, perché in realtà da solo non esiste nemmeno. Quello che esiste è il «per due». Quel «per due» è l’amore, che è il rifiuto dello scambio. L’amore, quindi la vita, non è lo scambio con l’altro, bensì la sua compresenza. La narrazione interna è narrazione esterna. Io è l’altro. Io e l’altro sono una tautologia. Il soggetto e l’azione che coincidono. La madre che coincide col figlio. Amiamo per due, Viviamo per due.

Per due è una tenue risposta al nostro esistere. 



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