Metti Lirio Abbate, Salvatore Inguì e Don Luigi Ciotti dentro un teatro comunale. E non di un comune qualsiasi, ma di Castelvetrano. Sul palcoscenico le loro parole accenderanno una luce. L’occasione è la presentazione dell’ultimo libro di Lirio Abbate, I diari del boss, edito da Rizzoli, che raccoglie le pagine dei “libricini” di Matteo Messina Denaro per ricollocare il suo pensiero nella storia. «Perché un boss non può andarsene», spiega Abbate dal palco, «dicendo che con certe storie non ha niente a che fare. In Sicilia, la povertà della gente è causa sua, la mafia si arricchisce grazie a lui. Matteo Messina Denaro è parte di questa storia». E ribadirlo, in una cittadina in cui la linea di demarcazione tra criminale e benefattore è sfumata, appare forse necessario.
Se non fosse che la luce, quella stessa luce che si è accesa sul palcoscenico nel corso di una chiacchierata lunga quasi due ore, passa sulle cose senza toccarle. Riempie il teatro – questo sì –, illumina le facce di chi è presente in platea, ma non procede oltre. La stessa dissociazione che emerge nei diari di Messina Denaro (Don Ciotti, dal palco, ne parla in questi termini: «è una separazione dell’ego», dice, «ci si vede dentro il suo narcisismo patologico»), la stessa dissociazione la si percepisce osservando la scena. Perché da un lato, sì, ci arrivano parole coraggiose, la spinta è positiva: Don Ciotti parla di rigenerazione necessaria del tessuto sociale, Lirio Abbate pone l’accento sulle scelte di voto che, nella provincia di Trapani, hanno portato all’elezione di personaggi che già rappresentavano un certo sistema criminale. Ma dall’altro viene trascurato un elemento che è invece basilare: ovvero il paese.
Castelvetrano come paese, Castelvetrano nella sua quotidianità. Che intanto sta sparendo mentre ne parliamo, smantellato pezzo per pezzo e abbandonato. E che sale sul palco attraverso le parole di Giuseppe Cimarosa, invitato a intervenire dal referente provinciale di Libera a Trapani Salvatore Inguì. Attraverso le parole di Cimarosa ci viene descritto per quello che è, ovvero per come lo conosce chi ci vive. «Castelvetrano è un paese borderline, dove le persone che si esaltano per la mafia sono le stesse con cui esci fuori a cena, e di cui non sospetteresti mai». È un paese dove non regna la mafia, ma «il culto della mafia», che è culto del potere e dei soldi, incarnato a Castelvetrano dalla famiglia Messina Denaro che, come ricorda Cimarosa, «qui ha sempre trovato porte aperte, purtroppo, e non per paura ma per culto».
Ma Castelvetrano, o la Valle del Belìce tutta, è un territorio di cui resta poco o niente. Un terreno brullo, in cui non si può seminare neanche la speranza. Lo testimonia Giuseppe Tumbarello, imprenditore partannese che chiede la parola a pochi minuti dalla chiusura. E salendo sul palco porta il racconto di una realtà quotidiana spesso invisibile. Tumbarello ci parla infatti di crisi di impresa, per cui nella Valle del Belice sembrano non esserci soluzioni, ma soprattutto denuncia la crisi profonda dei piccoli e medi imprenditori che «senza gli agganci giusti» vengono lasciati indietro. Agganci che si stringono con la massoneria, secondo la sua testimonianza, e più in generale con chi detiene il potere.
In uno scenario del genere, che ancora funziona attraverso queste dinamiche, e sono dinamiche evidenti per chi il territorio lo conosce, parlare di Matteo Messina Denaro diventa quasi superfluo. Cosa può fare l’antimafia lì dove manca una coscienza collettiva e politica?
Daria Costanzo