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15/01/2025 06:00:00

Terremoto del Belìce. 57 anni dopo si parla ancora di "ricostruzione" e "sviluppo"

Spira anche oggi un vento gelido fra le colline e la Valle del disastro, simile a quello di 57 anni fa, quando, nella notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968, un terremoto, anche se non di notevole magnitudo, provocò morti e distruzione di interi paesi di una vasta zona della Sicilia occidentale.

Gia’ la scossa della domenica dell’ora pranzo aveva lanciato l’allarme e metà dei salemitani avevano abbandonato le proprie abitazioni, raggiungendo le case di campagna, per chi ne era in possesso, o ricoveri di fortuna, attorno a falò per via della bassa temperatura e dei fiocchi di neve che indifferenti al sisma cominciavano a ricoprire il tutto e tutti .
La mattina seguente si raccontava di un intero quartiere collassato e di numerosi morti. Si favoleggiava di funaiole che fuoruscivano da improvvisi crateri apparsi.

Alle porte di Salemi venne trovato il corpo di un uomo deceduto durante la notte, giaceva tra il fango e la neve con il volto ricoperto di sangue. Nessuno si curò del cadavere, neanche i carabinieri, impegnati in altre urgenze. Tutti, del resto, pensavano a salvarsi alla ricerca di un rifugio ammantati in coperte per difendersi dal gelo e dalla neve.

E’ possibile fare un bilancio dopo oltre mezzo secolo?

Uno dei pochi fatti incontestabili raggiunti, in conseguenza del sisma, ci sembra essere stata la notorietà acquisita dalla “Valle del Belìce”, altrimenti rimasta ignota come da sempre. Nessuno, nemmeno gli indigeni fino a qual momento, aveva sentito qual nome, solo geografi e cartografi.

Altro dato inoppugnabile, l’avere sancito, addirittura in un convegno tenutosi a Salaparuta, che l’accento tonico di “Belìce” andava messo rigorosamente sulla “i” e non sulla “e”, come si ostinavano a pronunciare i vari corrispondenti televisivi.

Questione di lana caprina? Forse, ma non siamo forse in terra pirandelliana?

Purtroppo, da lì a poco il termine “Valle del Belìce” cominciò ad avere un’accezione negativa, paradigma di corruzione, sprechi, cattiva politica, promesse mancate e gravi inadempienze.

Mezzo secolo di promesse governative non mantenute, che per elencarle tutte ci vorrebbe un dossier. Ne ricorderemo sinteticamente quelle piu’ eclatanti. Tutte piovute addosso sulle spalle di una popolazione rimasta per secoli ai margini dell’impero e, dopo il sisma, per decenni nelle tendopoli, prima, nelle baraccopoli, dopo, ma sempre disponibile a ricambiare con una massa di voti chi li aveva illusi.

La piu’clamorosa di queste promesse, anticipando di un trentennio il “cchiu’ pilu pi tutti” di Cetto la Qualunque, fu quella passata alla cronaca con un linguaggio da super mercato: "pacchetto Colombo".
Prendeva il nome da Emilio Colombo, presidente del Consiglio dell’epoca.

Venne personalmente a Salemi il leader doroteo lucano. Nella roccaforte democristiana dei cugini Salvo, dall’alto di un mega palco, paradossalmente allestito davanti ai ruderi di una Madrice, abbattuta non dalla violenza del sisma, ma da un incolto Genio Civile.
In una Piazza Alicia gremitissima di popolo plaudente, salita dalla Valle, con una scenografia felliniana, annunciò “urbi et orbi” la creazione di 8.400 nuovi posti di lavoro per il “Belìce”. Finalmente esistiamo, si dissero in tanti.
Diciamo subito che di quei nuovi posti di lavoro non se ne realizzarono nemmeno la metà della metà, nemmeno l’ombra di un insediamento di una fabbrica di tondini di ferro o di profilati, come si cominciò a dire.

Al contrario. L’emorragia dell’emigrazione da sempre caratteristica del territorio fin dalla fine dell’800 (basti pensare che jazzisti di fama internazionale come Nick La Rocca era originario di Salaparuta e Tony Scott di Salemi) fu destinata ad aumentare d’intensità coinvolgendo anche gli strati intellettuali della società. Il tutto, a dispetto dell’indegna fiera delle promesse non mantenute.
Se nei primi anni del post terremoto, ad ogni anniversario si organizzavano manifestazioni di lotta alimentando speranze che si fondavano su terreni acquitrinosi come il sito dove venne ricostruita la Nuova Gibellina, con il trascorrere degli anni tutto e’ scaduto ad un stantio rituale di frasi fatte, e persino ad autocelebrazioni, come e’ accaduto alcuni giorni durante l’ennesimo evento commemorativo, dal titolo “Prospettive di sviluppo per la Valle del Belìce” tenutosi nell’aula consiliare di Santa Ninfa, mettendo insieme politici di opposti schieramenti.

Tutti concordi desolatamente nell’affermare che non solo la ricostruzione rimane un capitolo aperto (sic), ma che lo spopolamento della Valle e’ paurosamente aumentato, che l’assenza delle infrastrutture si e’estesa e che, in piu’,rispetto al passato, oggi si registra un declino agricolo nonostante la presenza di mega cantine sociali delle quali pero’ nella cronaca quotidiana non si perde mai l’occasione di cantarne le lodi
Dopo tre generazioni dal devastante sisma il territorio si interroga ancora una volta sulle sue prospettive di sviluppo. Un territorio non astratto, ma fatto di politici di governo e di opposizione, di sedicenti esperti, di amministratori locali e persino di antichi protagonisti del passato che, puntualmente ad ogni commemorazione, non fanno altro che ripetere come un disco rotto il frustro slogan secondo il quale il Belìce sarebbe stato accusato ingiustamente di sperperare denaro pubblico, vittima di una sorta di un razzismo istituzionale. Un leghismo alla rovescia, insomma.
E poco conta se gia’ dieci dopo il terremoto si svolse una massiccia manifestazione popolare a cui parteciparono 40 mila persone che la stampa dell’epoca definì come un vero e proprio processo ai governanti, ai mancati impegni solenni presi in nome della Repubblica, agli urbanisti famosi che disegnarono sotto le tende tante “Brasilia” per la Sicilia, ai politici della Regione che dal Belice e dai suoi lutti hanno avuto stanziamenti e favori per i loro collegi lontani.

E poco conta che, come si disse allora, si era consumato uno scempio con 687 miliardi volatilizzati in nome della corruzione, dei ritardi e dell'inefficienza di una classe dirigente che lasciava, dopo un decennio 40 mila siciliani ancora nelle baracche.
E poco conta se al Belìce che chiedeva le case gli “regalavano” invece un grande asse attrezzato: sei chilometri di asfalto con svincoli e cavalcavia che partivano dal nulla per arrivare al nulla, proiettato in un futuro senza tempo, e ”generosamente” anche un secondo asse attrezzato (di cosa, rimane un mistero ancora oggi) e il quadrifoglio di Partanna o il cavalcavia di Salemi e la sopraelevata di Poggioreale che si fermava nel vuoto, dopo una corsa su grandi piloni di cemento armato. O i campi da tennis e le piste in tartan costati un miliardo e mezzo, o la costruzione di 125 alloggi popolari a Salemi (il titolare dell’impresa arrestato assieme ad altri) costati nientemeno 170 milioni l'uno, quattro miliardi in più sul costo totale. O il crollo della chiesa madre di Gibellina, avvenuto di notte ad appena tre anni dall'ultimazione di una lenta e incompleta costruzione.

Il risultato di questa ultima commemorazione e’ davvero sconsolante se e’ vero che un assessore regionale invece di presentarsi con un elenco di progetti fattibili, avrebbe detto invece che bisogna “agire concretamente e non si può continuare a commemorare senza avere i progetti fattibili”. Dobbiamo utilizzare i fondi europei per rendere il territorio più appetibile alle imprese
Mentre un sindaco avrebbe posto una domanda definita “cruciale” chiedendosi retoricamente : “Come possiamo combattere lo spopolamento, con una media di appena 2,05 persone per nucleo familiare e molte case vuote?” Elementare Watson: “Procreando di piu’”.

Un altro convegnista ha invitato a prendere ispirazione dalla tecnica giapponese del kintsugi, che “ripara oggetti rotti riunendoli con polvere d’oro”. Resta da chiarire quali sono gli oggetti rotti e qual e’ la polvere d’oro. Sarebbe interessante sapere quale dovrebbe essere il collante tra i due elementi.
Questo incontro ha messo in evidenza ancora una volta una serie di ovvietà: che la Valle del Belìce non può più aspettare dopo 57 anni dal terremoto che e’ necessario non solo completare la ricostruzione, ma anche creare opportunità per giovani, investitori e turisti.

Insomma, un territorio che guarda perennemente al futuro. E lo fa da sempre. Passato e futuro fusi in un eterno presente, all’insegna di quel vecchio adagio della cattiva politica siciliana: i problemi non vanno risolti, vanno gestiti…

 


Franco Ciro Lo Re 



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