Esiste un certo tipo di associazionismo che in Sicilia non riesce a prendere piede. Soprattutto da queste parti, in provincia di Trapani. È quel tipo di associazionismo che si colloca all’estremo opposto dei club di servizio, un associazionismo di apertura, inclusivo, che parte dal basso.
Basta leggere i numeri: in provincia di Trapani tra Rotary, Kiwanis e Lions si possono contare ben otto club di servizio esclusivi (il totale italiano, senza tener conto delle singole organizzazioni, gira intorno ai 3mila club). La rete dei circoli ARCI invece su tutto il territorio italiano annovera circa 4mila associazioni, ed è un numero arrotondato per difetto. In provincia di Trapani, eppure, ne contiamo soltanto tre.
Soltanto tre circoli ARCI per 400mila abitanti, di cui uno – per altro – situato a Pantelleria, e perciò non esattamente inserito nel contesto della Sicilia occidentale.
Mettere a confronto i club di servizio e i circoli ARCI potrebbe suonare come una forzatura. Tuttavia, dietro la presenza capillare dei primi e la scarsa diffusione di questi ultimi si può forse rintracciare una forma mentis, o magari anche soltanto una direzione culturale, che è ben precisa: quella della deresponsabilizzazione dei cittadini, cioè delle persone che fanno parte di una comunità, a favore di un sistema di soluzioni calate dall’alto e che passano attraverso strutture gerarchiche e di pochi, dunque esclusive.
I circoli ARCI in Sicilia, cosa si fa e cosa manca
La realtà dei circoli ARCI è invece ben diversa. E non soltanto sul piano strutturale, ma per la missione che cerca di portare avanti. Giuseppe Montemagno, presidente di ARCI Sicilia, ce ne parla in questi termini: «ARCI è una rete di associazioni di promozione sociale e culturale. Dunque include realtà anche molto diverse tra loro, che spaziano dalle attività in campo culturale all’impegno sulle politiche sociali, dall’infanzia alla migrazione. Il filo rosso che ci unisce, però, è la volontà di aggregazione sociale».
Aggregazione sociale che si traduce, in molti casi, come sviluppo di comunità. Tanto che ARCI rappresenta, in certi territori difficili, un punto di riferimento – fisico e non soltanto – che ancora promuove la partecipazione cittadina. «Nei paesi più piccoli», continua Montemagno, «per esempio nei paesi che si stanno spopolando, ARCI è di fatto spesso l’unico luogo di aggregazione, nonché l’unico posto dove ancora si prova a fare cultura, aprendo spazi espositivi, proiettando film, o anche soltanto presentando un libro.»
È così che ARCI prova, giorno per giorno, a produrre un certo cambiamento nella società – o anche più semplicemente nei territori in cui opera. Un cambiamento che non è imposto dall’alto, ma nasce proprio dalla comunione di intenti. «Ogni circolo ARCI sta dentro un preciso contesto e, quando prova a ricostruire un territorio o una comunità, agisce secondo le dinamiche del posto in cui si colloca. Ovviamente mantiene fermi i suoi principi, ma comunque resta dentro una dinamica territoriale».
Come è accaduto, e ogni giorno accade, nel quartiere Ballarò di Palermo, quartiere tra i più colpiti dalla diffusione di crack e tossicodipendenza. Lì, tra le strade che di giorno ospitano uno dei mercati più famosi del sud Europa, l’azione di ARCI Porco Rosso ha cambiato la traiettoria di vita di chi è sempre stato ai margini della società, e perciò più esposto all’abuso di sostanze. Il gruppo di mutuo aiuto Awakening, nato proprio negli spazi di ARCI Porco Rosso e composto da persone del quartiere che conoscono da vicino la tossicodipendenza (inclusi coloro che ancora non ne sono usciti) offre un sostegno che va ben oltre l’assistenza benefica, perché dentro al gruppo ci si riconosce. Come scrivono sulle loro pagine, “mettersi in comune è la parola chiave”. «Chi si inserisce in quel contesto», spiega ancora il presidente di ARCI Sicilia, «parte dai bisogni delle persone che abitano lì, e che a volte vivono in condizioni ai limiti della normalità». Ma proprio per questo l’associazione compie un passo in più: perché mette in moto un processo di responsabilizzazione, verso sé stessi e verso gli altri membri della comunità.
Ma allora cosa manca, nella provincia di Trapani, perché un processo simile si radichi con la stessa profondità? Qual è il vero ostacolo in tutta questa storia? Secondo Giuseppe Montemagno il problema non è soltanto della provincia di Trapani, ma della Sicilia tutta. «In Sicilia esiste alla base un problema culturale: associarsi, qui, non offre la stessa attrattiva come succede nel resto di Italia. Altrove, nelle regioni del nord Italia per esempio, c’è una maggiore predisposizione verso il mettersi assieme e lavorare. La nostra difficoltà maggiore sta già lì, nel metterci assieme. Che nasca un’associazione in un territorio siciliano, specie di provincia, è già di per sé una vittoria. Però il lavoro che noi facciamo in Sicilia è straordinario, proprio per l’impegno maggiore che richiede. E l’ARCI nazionale lo riconosce, tanto da aver scelto Salemi come sede per il meeting di tutti i festival ARCI italiani. La difficoltà c’è, ma proviamo a superarla stando assieme».
A Salemi un esempio positivo di associazionismo
Il circolo ARCI di Salemi, intitolato a Peppino Impastato, è in effetti non soltanto un piccolo presidio della realtà ARCI in provincia di Trapani (uno dei tre), ma è anche un esempio di associazionismo che funziona e che lascia, nel territorio in cui si trova, un segno tangibile della sua presenza. Gestito da circa trenta salemitani tra i 25 e i 35 anni, alcuni dei quali salemitani solo di nascita (e crescita) e che Salemi hanno dovuta lasciarla per forza di cose, il circolo Peppino Impastato è a tutti gli effetti un presidio culturale.
Salvatore Caruccio, uno dei soci, definisce il circolo un promotore di cultura e resistenza. «L’idea iniziale, nata dieci anni fa, era di creare qualcosa per Salemi. Perché – e ce lo ripetiamo spesso – quello che c’è, pur essendo tanto, non è tutto. E noi, attraverso la cultura, l’arte, la musica e così via, cerchiamo di dare respiro alle coscienze dei nostri concittadini, e di costruire un tessuto sociale in cui vale la pena vivere».
All’attivo del Circolo ARCI Peppino Impastato ci sono tantissimi eventi e iniziative. Rassegne teatrali, rassegne musicali, progetti di Street Art, che è arrivata a Salemi proprio su spinta dei ragazzi del Circolo, corsi di yoga, mostre d’arte, presentazioni di libri… Il tutto messo in piedi grazie all’impegno volontario dei soci, persino quelli che ora vivono lontano. Con tutte le difficoltà del caso. «Portare avanti certe iniziative non è semplice. Soprattutto in passato, abbiamo faticato molto. La nostra rassegna teatrale [Carminalia, n.d.r.] dieci anni fa aveva un pubblico di parenti e amici stretti. Oggi portiamo circa 200 persone a ogni spettacolo. Come per ogni altra iniziativa, anche in questo caso è stata necessaria un’opera di sensibilizzazione. Ci vuole molto tempo. Ma piano piano, anche in una società immobile come la nostra, qualcosa cambia.»
Perché anche l’immobilismo incide sulla poca partecipazione dei cittadini e, come un cane che si morde la coda, blocca spesso sul nascere le iniziative di chi un cambiamento vorrebbe provocarlo. E allora, forse, c’è anche un altro ostacolo che emerge, sulla linea di questo, e che rende difficile associarsi. Ed è un ostacolo che arriva dalle amministrazioni locali. «Noi siamo fortunati, in tal senso. L’amministrazione ha riconosciuto in noi una vera e propria forza culturale, perciò ci ha supportato – soprattutto nel concederci certi spazi, come il Teatro del Carmine a Salemi. Relazionarsi con un’amministrazione disponibile è un punto importante».
E quello degli spazi è, davvero, un dettaglio cruciale. Che sottolinea pure Montemagno: «In Sicilia soprattutto è difficile riuscire a trovare uno spazio, i luoghi di aggregazione sono pochi e magari sono spesso affidati a associazioni di altro tipo. E se mancano gli spazi è difficile persino autofinanziarsi».
La storia del Circolo ARCI ci dimostra però che anche in provincia di Trapani c’è posto per un associazionismo partecipativo e comunitario. Certo è un modello che richiede impegno, passione e soprattutto una visione collettiva; ma può lasciare un’impronta profonda sul territorio e sulle persone che lo abitano. Dunque, come trasformare questa eccezione in una regola? Forse la risposta sta proprio nei piccoli passi di chi ha deciso di impegnarsi in prima persona, e di non arrendersi. Perché una comunità non si cambia per atti benefici, ma costruendo insieme – ognuno per come può – un posto migliore.
Daria Costanzo