Matteo Messina Denaro, il superlatitante catturato nel gennaio 2023, e deceduto 9 mesi dopo, aveva costruito una fitta rete di identità false per muoversi indisturbato durante i suoi trent’anni di latitanza. Documenti falsi di altissima qualità, come carte d’identità e patenti, gli hanno permesso di restare invisibile. E glielo hanno permesso anche tutti quei prestanome sui quali adesso la procura antimafia di Palermo sta indagando. Perchè oltre ai soliti noti ci sono degli insospettabili.
Documenti perfetti e complici insospettabili
Il giorno dell’arresto, i carabinieri del Ros hanno trovato nel borsello di Messina Denaro numerosi documenti falsificati, tra cui le identità di Andrea Bonafede, Melchiorre Corseri, Giuseppe Gabriele e altri, corredati da patenti con la sua foto. I documenti, di ultima generazione, hanno sollevato dubbi su chi abbia potuto produrli. Alcuni sospetti ricadono su complici attivi in agenzie di assicurazione o uffici di disbrigo pratiche, dato che nel suo covo di Campobello di Mazara sono state trovate anche fotocopie di altre identità.
La procura di Palermo, coordinata da Maurizio De Lucia, da ormai quasi due anni sta lavorando per decifrare quei nomi in codice contenuti nei pizzini del boss: “Parmigiano, Reparto, Fragolina”.
Nei giorni scorsi i carabinieri del Ros hanno passato al setaccio gli ospedali palermitani chiedendo informazioni su alcuni nomi. Perchè Messina Denaro avrebbe usato almeno 15 false identità. Tra i nomi usati spiccano: Andrea Bonafede, alias utilizzato al momento dell’arresto; Giuseppe Giglio, Vito Accardo, Gaspare Bono, Giuseppe Bono, Renzo Bono e Salvatore Bono, variazioni su un cognome probabilmente scelto per confondere le tracce; Giovanni Salvatore Giorgi, usato con successo nel 2017 per superare un posto di blocco a Mazara del Vallo; Vito Firreri, legato a documenti ritrovati in un tatuatore di Palermo; Vito Fazzuni, Giuseppe Gabriele, Giuseppe Indelicato, Simone Luppino, Giuseppe Mangiaracina e Alberto Santangelo.
Quasi tutti i nomi utilizzati dal boss appartenevano a persone nate a Campobello di Mazara, tra il 1961 e il 1973, con due eccezioni: Simone Luppino, originario di Castelvetrano, e Alberto Santangelo, nato in Venezuela. Questa scelta non era casuale: radicare le sue identità nel contesto trapanese gli permetteva di operare indisturbato in un territorio che conosceva a fondo e in cui godeva di protezioni diffuse.
La rete romana
Messina Denaro, in un interrogatorio del 2023, aveva rivelato come i suoi documenti provenissero principalmente da Roma, descritta come una "strada sicura" per ottenere documenti falsi di qualità. Già nel 2009, un imprenditore romano, Domenico Nardo, fu arrestato con l’accusa di aver fornito carte d’identità al boss. Inoltre, pizzini ritrovati negli anni indicano che altri mafiosi, come Salvatore Lo Piccolo, avevano collaborato nel fornirgli documenti.
Misteri irrisolti
Nel covo del boss, le autorità hanno scoperto prescrizioni mediche riconducibili a un primario oculista palermitano, Antonino Pioppo. Due le identità usate per visite oculistiche: Andrea Bonafede e Giuseppe Giglio. Pioppo ha dichiarato di non essersi mai accorto dell’inganno, spiegando che visita decine di pazienti ogni giorno. Tuttavia, il caso solleva dubbi sulle complicità o sulla disattenzione negli ambienti medici.
L’archivio segreto e i pizzini mancanti
La documentazione recuperata dal covo non ha ancora chiarito l'intero quadro. Mancano i famosi pizzini sugli affari di Cosa Nostra e il presunto archivio affidatogli da Salvatore Riina, ritenuto la chiave per svelare i segreti della mafia siciliana.
L’indagine coordinata dalla Procura di Palermo continua, cercando di decifrare i misteri della latitanza e dei complici che hanno reso possibile l’imprendibilità del padrino di Castelvetrano.