Il 17 dicembre scorso due incidenti, uno a Genova e l’altro a Cagliari, hanno portato a 892 il numero dei morti sul lavoro nel nostro paese nel 2024. E allora mi viene in mente la nostra cara Costituzione, la quale all'articolo 1 così recita: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.". Fondata sul lavoro. Si, dice proprio “lavoro”. Bene, allora penso che, se la parola lavoro è così importante per il nostro paese, a tal punto da comparire nel primo articolo di quel documento istituzionale che rappresenta il codice genetico della Repubblica Italiana, beh, allora credo che ci si sarebbe dovuto preoccupare innanzitutto di garantire che per tutti gli italiani, tutti, tale parola avesse un solo significato, chiaro, inequivocabile, non soggetto a interpretazioni di sorta, ma portatore di una e una sola idea, a prescindere da condizioni sociali, da posizioni geografiche e coordinate latitudinali, da fattori caratterizzanti di natura etnica o culturale, insomma un significato che da qualunque prospettiva tu voglia leggerlo, ti dice sempre la stessa cosa.
Proprio come un divieto di sosta: lo guardi e hai capito. Non è che in base alla religione in cui credi tu ti possa sentire autorizzato a parcheggiare, tantomeno se sei tifoso di una squadra anziché di un'altra. Non è che hai lo zio vescovo e quindi quel simbolo per te cambia significato. No, è un divieto di sosta, se sei abbastanza ignorante da non conoscerne il significato l'unico testo sacro che ti può svelare il mistero è il codice della strada. Punto. E quindi andiamo al punto: il lavoro è quella condizione, derivante da un contratto a termini di legge, che vincola il datore di lavoro e il lavoratore assunto a relazionarsi per obblighi professionali secondo quanto previsto da suddetto contratto. In parole povere: il contratto va rispettato in tutto e per tutto senza eccezioni. Il contratto di lavoro non è un consiglio come la dicitura sulla confezione dei tortellini “da consumare preferibilmente entro… poi fa un po’ come ti pare, io ti ho avvisato”. No, il contratto di lavoro è come il divieto di sosta, o lo rispetti o sei un trasgressore della legge, come lo è un ladro, come lo è un contrabbandiere, come lo è uno spacciatore, o come un candidato che viene beccato a comprare voti.
E questo è talmente semplice da capire che darei per scontato che tutti i bambini frequentatori della quinta elementare, da Aosta a Lampedusa, siano già eruditi in merito, perché non si sta parlando di cultura enciclopedica, ma di nozioni elementari che formano la coscienza dei cittadini. Il fatto strano è che, in questo paese, questa nozione elementare sul concetto di “lavoro” sembra essere considerata più una superstizione che una norma di comportamento. Qualcosa come “...Ah nel tuo contratto di lavoro è previsto che tu debba lavorare quattro ore? Ma dai, non mi dire che credi ancora a queste cose?! Siamo nel duemilaventiquattro, svegliati! Il mondo è andato avanti…” Avanti? Ma siamo sicuri? Penso che sia il calendario ad essere andato avanti. Dopo qualche decennio di conquiste sociali, stiamo riscivolando indietro. E ciò che più mi rende l’idea di un modo di pensare non conforme ai principi costituzionali, e mi restituisce il retrogusto acre di un modo di pensare vinto e rassegnato al malcostume, è l’attitudine, ormai drammaticamente calcificata, ad accettare lo stato delle cose come un’ortodossia (non ammessa ma concessa!) che, a dispetto del progresso sociale ottenuto col sangue degli anni di piombo, ci rivela che “tra il dire delle leggi e il fare del mondo reale del lavoro c’è di mezzo il mare”. Ed è un mare di morti.
Ma non solo: le 892 vittime di incidenti sul lavoro sono solo l’aspetto più drammatico di uno scenario inquietante che, come un iceberg, nasconde sotto la superfice del percepito la parte più vasta del suo essere, il continente sommerso dei sottopagati, dei “messi in regola a metà”, dei contratti part time in cui gli orari delle presenze non coincidono con quello degli orologi dei lavoratori, e che si rinnovano all’infinito. A questa geografia del continente sommerso risponderanno col clangore di lance sbattute sugli scudi in segno di dissenso, gli spartani dell’imprenditoria. Spartani “all’italiana” che nel conflitto scelgono di scuotere le loro lance contro la parte più debole, mentre con la parte forte sottoscrivono quotidianamente un tacito, sporco accordo assassino. Assassino perché quando non uccide fisicamente i lavoratori ne uccide la dignità. Gli spartani di Leonida non furono ossequiosi nei riguardi della prepotenza bellica persiana che arrivava da lontano per affondare la cultura ellenica. Morirono tutti, ma fieri di aver combattuto per un modello che meritava di essere difeso.
Fecero una gran bella figura e la storia ancora non riesce a smentirli. Altri tempi. Non so perché ma mi viene in mente l’ingegnere Adriano Olivetti e i suoi innovativi progetti industriali basati sul principio secondo cui il profitto aziendale deve essere reinvestito a beneficio della comunità. Progetti morti con gli eroi di Leonida. Altri tempi. Ci dobbiamo allontanare parecchio da quelle rive, e navigare in acque ben più torbide per occuparci della triste e squallida faccenda del mondo del lavoro di oggi. Un mare in cui stento ad orientarmi, perché mentre la Costituzione prevede il diritto allo sciopero, c’è chi, dopo aver giurato sulla Costituzione, cerca di inculcarci che lo sciopero è quasi un crimine. Viviamo tempi strani, personaggi come Olivetti sono così lontani dagli attuali standard che ormai non siamo neanche più tanto sicuri che siano esistiti davvero. E mentre l’oblio ingoia la storia di una persona per bene, i sacerdoti del tecnicismo finanziario addobbano l’altare, a quanto pare il dio del profitto ama i sacrifici umani e qui si preparano troppe feste in suo favore. Mi perdonerete se desisto dal partecipare, ma ho in programma una gita alle Termopili.
Massimo Cardona