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27/10/2024 06:00:00

   Ma le parole valgono? E a che servono?

 Ma le parole valgono? E, soprattutto, a che servono?

La domanda può sembrare pleonastica, ma forse ogni tanto dobbiamo ricordare che siamo fatti di parole e queste ci connotano - sempre e comunque all’interno di un contesto sociale e di confronto.

Domenica scorsa a Roma un pezzo meraviglioso di Marsala faceva bella mostra di se per tramite di parole in una enoteca; vettore diverse annate di un vino bianco e chi c’era conosceva la Sicilia, conosceva Marsala e la sua magia e per tre ore è rimasta incantata dalla narrazione del produttore: quello che c’era nei vari bicchieri è stato raccontato tecnicamente, storicamente e contestualizzando quanto lui fa da anni con competenza e amore.

I volti erano rapiti dalle parole sapienti e semplici spese per far sapere che ad oltre mille chilometri da dove eravamo esistevano realtà contemporanee che sperimentano con orgoglio e dove la parola colma il gap di mancata curiosità di un contesto ( spesso il nostro), mentre altrove restano basiti da tanta meraviglia.

Le parole.

Leggendo in settimana di provvedimenti della magistratura che hanno toccato alcuni membri del Consiglio Comunale di Marsala e una parte della politica della provincia di Trapani, riflettevo con amici ed amiche di quanto stava accadendo in Città e di come parte di quella politica a volte sembra essere impermeabile ai cambiamenti al tempo che passa e ai modi di esercitarla. Parliamo del Consiglio Comunale ovvero la maggiore assise democratica di una comunità e, al netto di qualunque presunzione, a volte magari dovrebbero emergere ragioni di opportunità nel rispetto di quello che è il Parlamento della Città: chi è stato oggetto dell’attenzione della magistratura, poche parole da scrivere a proteggere l’Istituzione che rappresentano, in nome dell’etica del fare.

Poche parole, in coerenza con l’essere rappresentanti di pezzi della propria comunità, ma dubito si traggano conclusioni a garanzia delle parti.

Parole non spese, forse.

Apostrofare con disprezzo una categoria professionale appellandoli giornalai anziché giornalisti, quanta tristezza: premetto che chi ha affermato ciò pare non abbia in alcuna considerazione i giornalai veri eroi di questo tempo che sta spazzando in modo inesorabile questi presìdi delle nostre piazze vie, perché tanta acrimonia?…

I giornalisti sono fondamentali per raccontare informare far sapere, lo ricorda il nostro Presidente della Repubblica come ha fatto di recente ergendosi a baluardo di continui attacchi alla categoria, qui riporto un breve passo: “La libertà e il pluralismo dei media garantiscono il pieno dispiegarsi di alcuni dei diritti irrinunziabili per la democrazia e la misurazione della sua qualità: il diritto alla libertà di espressione e di informazione. L’informazione libera, indipendente, plurale è un diritto dei cittadini; è per tutti un dovere esigerla. È l’antidoto per contrastare fenomeni manipolativi".

Dobbiamo esigere questa forma di contributo al sapere, e a chi ha pronunciato quelle parole (editore lui stesso) mi permetto di consigliare la lettura dei molti discorsi del Presidente Mattarella sul tema: parole ferme che non consentono alcuno scempio o irrisione di una categoria che è sopratutto un presidio costituzionale

 

«Ogni atto rivolto contro l’informazione è un atto eversivo contro la Repubblica»

Si auspichi un cambio di passo a più livelli dalla politica all’imprenditoria e si cambi linguaggio, basta irrisione basta insulti, rispetto e etica conseguente e argomentiamo se in grado di farlo. L’amore e lo sviluppo non possono prescindere dall’uso sapiente di parole: noi siamo questi e senza loro o peggio facendone strame, ci qualifichiamo come tali. Il nostro territorio, la nostra Città su più livelli DEVE ricordare qualche volta in più ciò che fu fatto non più di qualche anno addietro conferendo la Cittadinanza onoraria al Professor Tullio De Mauro (linguista, lessicografo e saggista italiano, ministro della pubblica istruzione), e di conseguenza alzare il livello del confronto non arretrando mai.

giuseppe prode