Quantcast
×
 
 
02/09/2024 06:00:00

I due femminicidi di Castelvetrano, cosa li accomuna e cosa li differenzia

 Lei aveva deciso di lasciarlo e lui non l’accettava. L’ha uccisa con sette coltellate mentre dormiva in un lettino singolo. Poi, dopo averle sistemato il coltello nell’incavo ascellare, si è lanciato più volte sulla lama appuntita. A Castelvetrano li hanno trovati così, Gino Damiani e Daniela La Gumina, marito e moglie uno sull’altra, in una pozza di sangue. Era il 15 marzo del 2019.

 

Il 24 dicembre del 2022 invece, quando sono accorsi i carabinieri nella vicina frazione di Marinella di Selinunte, Ernesto Favara aveva in mano il suo coltello ancora sporco di sangue, mentre la moglie Maria Amatuzzo giaceva a terra senza vita. Anche lui non aveva accettato la fine del suo matrimonio e l’aveva colpita 28 volte con una lama di quasi 40 centimetri, quella che si usa per sfilettare i pescispada. Ernesto Favara è un ex pescatore di 63 anni, Maria Amatuzzo di anni ne aveva 29.

 

In entrambi i casi, siamo di fronte a uomini dalla personalità infantile (come ci ricorda lo psicologo Giulio Cesare Giacobbe, autore di diversi bestseller) e forse a coppie dalla cui vita simbiotica, ad un certo punto, lei decide di smarcarsi. Da circa vent’anni, nelle coppie in cui avviene il femminicidio, l’identità dell’uomo è definita dalla partner, che si prende cura di lui. E allora l’abbandono viene vissuto come un annullamento della propria esistenza. Infatti, spesso accade che dopo l’omicidio della moglie/compagna, anche lui si toglie la vita.

Ma nel femminicidio di Marinella di Selinunte c’è qualcosa di più, di diverso. È come se, dopo più di quarant’anni, fosse tornato il delitto d’onore.

 

Quella vigilia di Natale, Ernesto Favara, dopo aver attirato la giovane moglie con una scusa a casa sua, ha cominciato a colpirla all’interno del garage per poi terminare il massacro all’esterno, in una sorta di cortile e in pieno giorno. In uno degli ultimi messaggi che le aveva inviato, c’era scritto: “Vi farò danno”. Il riferimento era alla moglie e al suo nuovo compagno. Ed è quest’ultimo che, abitando a due passi, ha sentito le urla della donna e ha visto Maria a terra senza vita, tra il sangue e le sue interiora. Qualcuno racconta che il pescatore, vedendolo, gli abbia urlato: “Vieni qua, che ce n’è pure per te!”.

 

Pare che agli amici al bar, Ernesto Favara avesse già detto che prima o poi avrebbe ucciso sia lei che lui. Ma come credergli? Sono cose che si dicono.

A Marinella di Selinunte, in tanti sapevano della fine della loro storia, della presenza di un nuovo uomo accanto a Maria, uno che abitava proprio a pochi metri dalla casa di Favara. Alcuni erano convinti che passassero, abbracciati, davanti al suo ex per umiliarlo. Altri parlavano di mortificazione, di arroganza, del fatto che Ernesto avrebbe voluto che lei si occupasse dei figli, al posto di fare sempre “feste e festini”. Dispetti, tradimenti… Insomma, lui l’avrebbe fatto per disperazione. Ed è stato condannato all’ergastolo.

 

E allora colpisce la mancanza di reazioni da parte della comunità: nessun corteo per ricordare Maria Amatuzzo, nessuna panchina rossa in suo nome, nessuna messa in suffragio (se si esclude quella voluta dal sindaco, una settimana dopo l’omicidio). Iniziative invece avvenute nei confronti di Daniela La Gumina. Tutte cose che non possono certo essere spiegate solo col fatto che la ragazza fosse originaria di Palermo.

È come se la borgata marinara, nonostante tutto, avesse mantenuto una propria benevolenza nei confronti di chi, “esasperato”, avrebbe compiuto l’omicidio. Anche se “ovviamente dispiace”, “ovviamente non è una giustificazione”, “ovviamente ha sbagliato, però…”.

Ecco, è quel però che somiglia vagamente a “Non sono razzista, però…”.

 

Attenzione però a considerare il femminicida semplicemente un mostro. Sarebbe un grosso errore, che ci allontanerebbe dall’approfondire le complesse dinamiche (anche psicosociali) che stanno alla base di omicidi così cruenti. Non ha tutti i torti il padre di Filippo Turetta, l’ex fidanzato che uccise Giulia Cecchettin, quando dice al figlio “Eh va beh, hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza... Quello è! Non sei un terrorista, voglio dire... Devi farti forza. Non sei l’unico... Ci sono stati parecchi altri... Però ti devi laureare”. Ci si può focalizzare sul “momento di debolezza” e considerare questo pensiero come assurdamente irrispettoso nei confronti della vittima. O vedere la legittima preoccupazione di un padre di fronte alla possibilità che il figlio possa togliersi la vita. Oppure ammettere che, in effetti, chi compie questo genere di delitto non è un criminale abituale. E nemmeno una rarità, purtroppo, date le statistiche impietose.

 

Ecco perché forse c’è ancora molto da fare in termini di prevenzione e di educazione, oltre ai semplicistici imperativi sulla donna che non si tocca nemmeno con un fiore, i cortei e le panchine rosse.

 

Egidio Morici