Caro direttore, l’articolo “Sulla morte di Satnam Singh e il comportamento schifoso del suo datore di lavoro” di Katia Regina non è solo frutto di una lunga, dolorosa riflessione sulle morti bianche macchiate di sangue ma racconta la disumanità elevata a sistema che coinvolge l’intero Paese.
L’episodio di Latina rappresenta il più brutale dei comportamenti che il fenomeno dello sfruttamento ha messo a nudo. Quante vicende nel corso degli anni, riguardanti gli “infortuni” sul lavoro, sono state occultate dall’omertà per coprire “l’oltraggioso profitto”. Capisco lo stato d’animo dell’autrice che ha impiegato diversi giorni prima di scrivere su questa orribile storia (a proposito invito tutti a leggere la sua interessante disamina relativa agli atti di malvagità e abuso in vari contesti della vita sociale e professionali, che viene facilitato dalla de - umanizzazione delle vittime). Tutto questo però non deve solo portare all’esecrazione per l’orribile gesto ma spingere tutti ad assumere anche un atteggiamento diametralmente opposto rispetto a quello che abbiamo assunto nel passato. Non possiamo tollerare il fatto che - come è avvenuto sulla scia triste di tanti altri episodi – si ripeta un déjà vu, cui segue una sorta di assuefazione fatta di silenzio e di afasia, dopo lo sfogo della rabbia e la riprovazione. Questa sì che sarebbe la più atroce e crudele delle risposte che si aggiunge a quelle che vengono date alle stanche e logore richieste di smetterla con un sistema imperniato su un diffuso lavoro sottopagato, di cui quello nei campi di raccolta è solo la punta di un iceberg.
A questo punto bisognerebbe capire perché il rapporto di collaborazione fra l’opinione pubblica, società civile, mass media e il mondo largo delle istituzioni, politici, sindacati, apparati pubblici, magistrati, forze dell’ordine sia, su questo terreno, come purtroppo su molti altri, quasi inesistente. Il problema in parte viene affrontato nell’articolo di cui ci stiamo occupando. Io mi limito ad alcune brevi considerazioni che traggo anche dal mio lontano passato, in particolare a quello del bracciantato e della mezzadria. Ma a voler giudicare le cose con lo sguardo rivolto alla realtà di questi anni non mi sento di sostenere che la situazione sia granché migliorata. Alla luce di quanto appena evidenziato faccio qualche breve cenno su alcuni punti della crisi che stiamo attraversando e che secondo me mettono in cattiva luce il nostro Paese che vanta una Costituzione in cui all’articolo 1 dice: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, spesso richiamato demagogicamente senza vergogna da parte di chi è chiamato a tutelarne la pienezza, l’effettivo esercizio e l’equa e giusta retribuzione, un insieme di attività e funzioni “che concorra al progresso materiale e spirituale della società”. A quasi ottant’anni della sua entrata in vigore, pochi si rendono conto che sussistono infrastrutture para- schiavistiche che sono tutt’altro che un mero retaggio del passato ma un pezzo di società italiana ancora lungi dall’essere incluso. Un arcipelago di comparti produttivi, irregolari o illegali, su cui nessuno se ne occupa davvero, salvo protestare, indignarsi o nella migliore delle ipotesi promettere interventi che, una volta passata l’onda dello sdegno e della commozione, non arriveranno mai o se varati si riveleranno dannosi o inadeguati. Si sceglie la via più facile e conveniente, anche se poco praticabile e certamente inefficiente: l’assistenza fiscale o l’approvazione abborracciata di nuove leggi, piuttosto che garantire l’applicazione di quelle esistenti attraverso l’utilizzazione degli strumenti ordinari (ispettorati del lavoro, magistratura, forze dell’ordine).
Sui diritti non faccio una questione di distinzione né una classificazione di tipo gerarchico. So che tutti i diritti, civili e sociali, vanno garantiti e tutelati e rispetto ai quali lo Stato deve trovare gli strumenti, i modi e le forme idonei per farli viaggiare insieme. Se mi è consentita una osservazione essa riguarda i principi fondamentali e i diritti. Di entrambi se ne parla nella Costituzione. Fra i primi voglio citare l’articolo 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”.
Quello che rilevo, e che credo sia sotto gli occhi di tutti, è che la soluzione dei grandi problemi dipende da quanta attenzione, vigilanza, interesse che cittadini e mezzi di informazione riescono a riservare soprattutto a determinati drammi sociali. Quella della infrastruttura para schiavistica gigantesca, cui abbiamo fatto riferimento, che pesa su milioni di lavoratrici e lavoratori e sulle loro famiglie, pare abbia ricevuto poca o nessuna attenzione. A prevalere è ancora il dolo, la colpa grave, la violazione sistematica delle norme, la promozione e l’incoraggiamento del lavoro in nero. Sono questi i comportamenti, la maggioranza dei quali non viene mai sanzionata. Sono quelli che alimentano il nuovo schiavismo e le conseguenze nefaste cui siamo costretti ad assistere quotidianamente.
Filippo Piccione