Mi chiamo Luca, scrivo per questo giornale da circa un anno. Sono un militante, studente di lettere classiche, induista e balbuziente. A dire la verità, per molta gente ero un balbuziente grave e adesso sono in fase di remissione; per me, invece, sono e rimango un balbuziente. Non sono qui per fare vittimismo, ma vi sto scrivendo per cercare di comprendere insieme come stiano realmente le cose.
Cosa vuol dire che sono stato un balbuziente “grave”? Questo aggettivo viene utilizzato quando si è soliti parlare di una malattia, di qualcosa di non incurabile ma di davvero difficile da superare: un qualcosa, fisico o mentale che sia, che rischia di farti perdere la vita. Secondo la Treccani la balbuzie è l’ ”alterazione del flusso verbale, in forma di blocchi o ripetizioni di sillabe, causati da spasmi intermittenti dell’apparato fonoarticolatorio. Ne risulta una loquela periodicamente esitante, interrotta, tronca e abbondante di ripetizioni”: come spesso la nota enciclopedia italiana riesce a fare, essa ci offre una definizione monca o, almeno, dotata di unica prospettiva. L’aggettivo “grave” potrebbe accostarsi alla parola “balbuzie”? Sì, se si parla di una malattia ma, a mio modo di vedere, facendo così abbiamo imboccato la strada sbagliata. Essa non è una malattia che, in caso non curata, può portare alla morte oppure, come ad esempio le numerose malattie “non mortali”, crea disagi psico-fisici continui: anzi, forse essa può portare numerosi disagi “psico-fisici” ma non è assolutamente una malattia. Anzi, sì che è una malattia, ma una malattia sociale. Con malattia sociale intendo un qualcosa che può avere delle conseguenze in comune con le malattie, ma le cause sono da ricercare non dentro noi stessi ma fuori: per farla breve, insomma, si tratta di una malattia costruita dalla società. Vi viene in mente un altro esempio? Certo che sì, l’omosessualità: essa, soprattutto in passato ma spesso ancora oggi, è etichettata come malattia perchè non si conforma con un bagaglio comune, perchè appartiene ad un qualcosa di diverso rispetto all’identità sociale generale; e la conseguenza di ciò è che la gente ha paura, se non terrore, di mostrarsi per quello che è. Ed ecco che qui ritorna il nostro discorso, spero in una modalità più chiara: la balbuzie è una malattia sociale perché non si uniforma con il flusso verbale della società, ma si prende i suoi tempi, spesso mandando a quel paese tutti i propri schemi, e ha come maggiore conseguenza il rifiuto categorico del balbuziente di sentirsi stesso.
L’approccio che io reputo totalmente errato è quello di catapultarsi subito da uno specialista del settore: etichettandola come innaturale ed un qualcosa a cui è doveroso porre rimedio, il balbuziente si sente obbligato a rimuoverla per avere, finalmente, la soddisfazione di essere come gli altri. Il balbuziente, quindi, qualora “riuscisse a farcela”, reputerebbe il risultato come una grande vittoria, ma in caso di esito contrario non sarebbe in grado di accettarsi. Il trattamento da uno specialista, secondo me, deve essere soltanto l’eventuale step successivo alla consapevolezza di sé, a toccare con mano il fatto che la balbuzie appartiene al balbuziente: “la cura” della balbuzie, quindi, avrebbe una funzione simile alla chirurgia estetica, in cui decidi di modificare una parte di te stesso che verrà mostrata alla società.
Ed è qui che la balbuzie diventa un enorme strumento di lotta politica: il maggiore strumento di lotta politica è mostrarsi per come si è veramente e, soprattutto, essere fieri di esserlo. Non avere paura degli sguardi della gente che ti etichetta e ti denigra come “diverso”, ma di rimanere in piedi e ben saldo nella propria integrità. Ci sono tantissimi passi avanti ancora da fare, ma tutto parte dalla consapevolezza di sé e continuerà sotto forma di una nuova coscienza sociale.
Spero che questo articolo non rimanga invano: siamo in molti, più di quanto pensiate.
Con orgoglio,
Luca Lo Buglio