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24/02/2024 06:00:00

Quella diga simbolo della grande sete della Sicilia 

 Il piccolo borgo montanaro di Blufi si trova nel cuore delle Madonie, in provincia di Palermo. In primavera le campagne attorno il paese, novecento abitanti, si riempiono di migliaia di tulipani selvatici rossi, tanto che l’area è stata ribattezzata «la piccola Olanda». Ma a ben guardare c’è un’altra cosa che rende Blufi famosa, oggi più che mai. Visto dall’alto, sembra un’arca. O un pezzo di muraglia di qualche quartiere militare romano. È un relitto di cemento armato nel cuore della valle. Questa “cosa” ha appena fatto sessanta anni. Sembra il rudere di qualche civiltà antica. In realtà di un certo modo di governare il territorio. È infatti una delle incompiute più tristemente famose di tutta la Sicilia. È la famosa diga di Blufi, vera e propria cattedrale dello spreco, oggi, in un contesto in cui l’Isola fa i conti con la più grave emergenza idrica di sempre.


Nelle intenzioni di chi l’ha voluta, un’epoca fa, avrebbe dovuto raccogliere l’acqua dell’Imera meridionale, il principale corso d’acqua, per lunghezza, della Sicilia, e convogliarla verso una vasta area interna. La diga che non c’è, è monumentale, con una capienza di ventidue milioni di metri cubi d’acqua per un’estensione di cinque ettari e mezzo. Come la base della Piramide di Cheope per intenderci.


A Blufi sono stati spesi finora cinquecento miliardi di lire (duecentocinquanta milioni di euro), con un territorio prima distrutto, sventrato, e poi abbandonato. I lavori, progettati negli anni Settanta, e messi in gara, negli anni Ottanta, iniziarono effettivamente solo nel 1990 dopo un lunghissimo iter per gli espropri. Sono stati poi fermi dal 2002 al 2021, quando la Regione ha deciso di far ripartire la macchina.

Ovviamente, è tutto da rifare: sono cambiate le condizioni di fabbisogno idrico, le cave di approvvigionamento, i volumi d’acqua, le regole per la sicurezza. Viene così pubblicato un bando, dando l’incarico per aggiornare il progetto: due milioni e centomila euro. La procedura però non è stata ancora completata. Si pensa che tutto sarà pronto entro fine anno. Poi si passerà allo studio dei materiali, e poi di passaggio in passaggio si potrebbe davvero arrivare un giorno a vedere all’opera la diga che da sola, con la capienza che è un terzo di quella di tutta la Sicilia, potrebbe alimentare le province che più di tutte oggi soffrono la siccità: Agrigento, Caltanissetta, ed Enna. Al momento non si sa nemmeno quanto potrebbe costare l’opera, ci sono solamente i soldi per il progetto.

La Regione annuncia passi avanti ogni sei mesi, più realista è il sindaco di Blufi, Calogero Puleo. È più giovane della diga. Il primo progetto del mostro di cemento che sfregia le Madonie è del 1963. Lui è del 1976: «Si deve mettere un punto a questa vicenda. O si bonifica l’area o si realizza l’opera. In questa fase è stato finanziato soltanto il progetto, per il completamento servono ulteriori centocinquanta milioni di euro. Mi auspico che non sia l’ennesimo fallimento della politica».

Nel frattempo l’isola fa i conti con l’assenza di acqua. Sui social sono virali le immagini riprese dall’alto delle dighe con il livello dell’acqua ai minimi, dei laghi prosciugati, dei fiumi aridi. Gli agricoltori e gli allevatori occupano piazze e autostrade. Il governo regionale dichiara lo stato di emergenza.

Ci manca solo che qualcuno improvvisi la danza della pioggia. Rivolgersi alla Madonna, invece, qualcuno lo ha già fatto. E chi se no: sempre lui, quel Totò Cuffaro, che quando era presidente della Regione Siciliana, nel 2007, riuscì a trasformare l’emergenza idrica in una questione di devozione. «Con me l’acqua non mancherà mai – disse in un’occasione, in visita nella provincia di Enna – grazie alla protezione della Madonna di Pompei, di Siracusa e di Lourdes». Ne nacque una gran polemica, con alcuni sacerdoti che arrivarono a parlare di «blasfema bestemmia». Per chiarire l’equivoco, Cuffaro prese carta e penna per scrivere al Vescovo di Nicosia: «Ho inteso rivolgermi alla Madonna nella vicenda dalla carenza idrica, spinto dalla mia devozione filiale e consapevole che tale atto in nulla può sostituire il proprio impegno personale e umano».

E davvero non resta che pregare. Lo sanno bene del Belice, che domenica 18 febbraio, tra un sit-in e l’altro, sono scesi dai trattori e si sono uniti al parroco di Gibellina, con gli scout, e i gruppi di preghiera, per una via crucis penitenziale per invocare la pioggia. Intorno, è solo caos: i sindaci si prodigano in ordinanze che quasi nessuno osserverà: vietato lavare l’auto, vietato riempire le piscine. I Comuni hanno cominciato a diradare l’erogazione dell’acqua e a diminuire la pressione, in attesa di provvedimenti più drastici.

Appare evidente, mai come in questo momento, quanto sia stata dannosa la mancata programmazione di interventi seri per rendere efficiente la rete idrica. La metà dell’acqua in Sicilia si perde nel nulla. Il 52,5 per cento di quella immessa nelle reti idriche, sparisce. Per dispersione l’Isola è la terza regione d’Italia dopo la Basilicata, che ne perde oltre il sessantadue per cento e l’Abruzzo, che sfiora il sessanta per cento. Tutto è dovuto a un mix letale di politica miope e mediocre burocrazia. Il culmine si è raggiunto nell’ottobre del 2021 quando la Regione Siciliana ha incassato una sonora bocciatura con l’esclusione dai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza di trentadue progetti su trentadue presentati per il miglioramento della gestione delle risorse idriche nell’Isola.

Ci sono poi situazioni paradossali. Da qualche anno è in liquidazione l’Eas, il famigerato Ente Acquedotti Siciliani, che distribuiva, male, l’acqua in molti Comuni della Regione. Una liquidazione infinita (vabbè, si parla di acqua), cominciata nel 2004 e andata avanti di commissario in commissario fino a oggi. Morale: in molti Comuni, ancora, tecnicamente, l’acqua la porta l’Eas, che però non esiste più. Nessuno fa la manutenzione della rete idrica, e nessuno, soprattutto, riscuote i canoni.

I sindaci scrivono. Scrivono ordinanze per limitare il consumo dell’acqua, scrivono alla Regione Siciliana per sapere cosa fare, scrivono ai privati, i signori dei pozzi, che si preparano a fare grandi affari, vendendo la loro acqua (ma l’acqua può essere di qualcuno?) ai Comuni a cifre esorbitanti, in un gran via vai di autobotti. Lo sa bene la mafia, che è l’anello di congiunzione di tutta questa storia. C’era la mano della mafia, raccontano i pentiti, dietro il grande affare della diga di Blufi, come di tutte le opere pubbliche incompiute in Sicilia. C’è la mano di Cosa nostra, dietro la crisi dell’acqua anche oggi.

A fine gennaio a Carini, alle porte di Palermo, sono stati arrestati cinque esponenti della locale famiglia mafiosa. Solite cose: qualche estorsione, l’antica arte della sensalia, cioè della mediazione per l’acquisto degli immobili, anche all’asta, e poi una piccola scoperta: i Carabinieri hanno accertato che i vertici dell’associazione mafiosa avrebbero gestito una condotta idrica abusiva mediante la quale, dietro pagamento, fornivano acqua per uso civile a una consistente fetta della popolazione che non aveva altre possibilità di approvvigionamento. Proprio così, si erano fatti il loro acquedotto. Dategli tempo, e si faranno anche la loro personalissima diga



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