Poi di colpo ti scopri sprotetto. Hanno violato i tuoi spazi, i tuoi diritti, avrebbero potuto violare il tuo corpo. Il corpo di tanti coetanei, di tante coetanee è stato difatti violato, abusato, ferito, il corpo di altri, magari colleghi, o anche amici adesso riposa in una bara di zinco. Avresti potuto esserci tu, lì dentro - ti ripeti e ti ripetono a casa, ci ripetiamo atterriti tra amici. E lo sappiamo che quel verbo, “riposa”, non rende giustizia, perché se solo quel corpo tramortito avesse ancora una voce a riposarsi non ci penserebbe nemmeno, e tremolante dalla paura, o ferma, decisa per la rabbia, quella voce griderebbe l’ingiustizia di non essere stata protetta nemmeno nei luoghi che le appartengono. Che le appartenevano, anzi. Denuncerebbe una sicurezza assente, che manca e che permette stragi in aule universitarie in importanti capitali europee, ma anche violenza, spari, uccisioni nel pieno centro di città metropolitane nostrane, in strade o discoteche affollate da giovani studenti che vorrebbero semplicemente svagarsi un po’.
Ed è vero che l’assurda tragedia di Praga non merita di essere accostata a ciò che da settimane, mesi, succede a Palermo, eppure alla fine, in Repubblica Ceca come in Sicilia perdiamo vite. A morire sono giovani come me, trucidati in luoghi dove esercita(va)no un diritto. In luoghi, siano questi scuole, università ma anche discoteche e pub (si, è un diritto andare anche a svagarsi) dove avrebbero dovuto essere protetti. Dopotutto non penso si chieda molto, solo che non si debba, non si possa, entrare con un fucile all’interno di un’università, di una scuola o armati di pistola a diciassette anni in discoteca con la mano che muore dalla voglia di premere il grilletto e regolare i conti.
Eppure a collegare Praga e Palermo ci pensa un amico, l’ho conosciuto lo scorso anno, lui, ceco in Erasmus in Sicilia, io a raccontargli di sera una città che conosceva già meglio me. Non ci sentivamo da allora. Alla notizia della strage all’università di Praga il mio pensiero è andato subito a lui. Studente di Lettere che vedeva adesso il suo edificio diventare campo di battaglia e camposanto poi, di coetanei, colleghi, amici. Gli ho subito scritto, mi ha subito risposto, col tempismo di chi ha ricevuto in quelle ore decine e decine di messaggi e chiamate e ha dovuto rispondere per dimostrare di esserci ancora. Fortunatamente sta bene, fortunatamente quel dannato 21 dicembre non è andato in facoltà, andava quasi ogni giorno in biblioteca, avrebbe vissuto tutto se solo anche quel giorno avesse scelto di andare. Dopo avermi rassicurato sulle sue condizioni, aggiunge altro, il vero nocciolo di questo nostro breve scambio “comunque il terrore lo sento tantissimo, il fatto che i colleghi che incontravo quotidianamente hanno vissuto una cosa del genere o non ci sono più mi rende tristissimo”. Parla di terrore e non potrebbe essere altrimenti, ne ha tutte le ragioni. Nulla di tutto questo dovrebbe succedere. Sicuramente non più.
Ed io che nei giorni precedenti alla strage avrei voluto scrivergli di Palermo - quella città che ha tanto amato, che tanto amo, e che pure da mesi, i giovani li spaventa - non l’ho più fatto e adesso che hanno una pagina d’inferno con cui fare i conti certo non mi sembra giusto parlargli di quello che succede a casa nostra. Però è vero che il capoluogo siciliano spaventa. Spaventa le ragazze che vorrebbero uscire e non lo fanno, almeno non da sole, mangiate vive dalla giustificata paura che branchi di ragazzi dagli ormoni impazziti e dalla violenza sfrenata potrebbero approfittarne, avvicinandole nei luoghi della movida, facendole bere, palpandole per continuare magari altrove lo “sporco lavoro” e nessuno si accorgerebbe di niente - è già successo del resto. Spaventa i ragazzi che a pochi metri dal Politeama, seduti tranquilli in raffinati bistrot sono costretti a scappare sentendo i colpi fortunatamente in aria di sette spari seguiti a una rissa. Spaventa chi va, chi andava, chi sarebbe voluto andare in discoteca e alla notizia di un diciassettenne che fa fuoco e uccide a colpi di pistola un ragazzo di ventidue anni nei bagni del locale, ecco a questa notizia trema. Se poi viene a sapere, il ragazzo, che la sparatoria mortale avviene nemmeno una settimana dopo i colpi in aria e nella stessa zona, allora a questa notizia non solo trema, ma pure si incazza, il ragazzo. E fa bene, perché una città violenta non è una città sicura, e la sicurezza è un diritto che non andrebbe neppure richiesto se si vivesse in un posto normale. Ma forse la normalità non esiste ed è solo un triste e astratto concetto. Forse i nostri luoghi sono più complessi di quanto possano sembrare, come gli animi di chi li abita, del resto. Allora non ci rimane che chiederla, la sicurezza, una vera sicurezza a tutela degli studenti, dei più giovani, dei più fragili. Che ce la porti il nuovo anno magari.
Filippo Triolo