Flop della rassegna e troppi insulti in rete. Sicilia, l'imprenditore si toglie la vita
Con la cultura non si mangia, diceva un noto ministro di qualche anno fa. Però c’è chi, con la cultura tragicamente muore. Siamo ad Agrigento, città siciliana che ha vinto a sorpresa il titolo di capitale italiana della Cultura 2025. La sorpresa è data dal fatto che gli indici riferiti proprio alla lettura, alla fruizione di cinema, teatro, spazi culturali, collocano la città e la provincia agli ultimi posti in Italia. Ma è pur sempre la città della Valle dei Templi e di Luigi Pirandello. Solo che anche la cultura, qui, prende una piega inaspettata, gioca con la vita delle persone. Insomma, la corda pazza della città prende il sopravvento, ancora una volta.
Tutto comincia con una telecamera che entra a teatro. Il teatro è, appunto, il “Luigi Pirandello”. Muffa alle pareti, necessità urgente di manutenzione, ma pur sempre un bel teatro, rosso, luminoso, caldo. E vuoto. Non c’è nessuno. Solo l’addetto al service, un paio di vigili del fuoco. Eppure in quel teatro si dovrebbe celebrare il Festival del cinema sportivo “Paladino d’oro” che è giunto alla sua quarantatreesima edizione, e che fu fondato, addirittura, dal giornalista sportivo Sandro Ciotti.
Come mai non c’è nessuno? Lo schermo è pronto e muto, proietta immagini e video come se nulla fosse, davanti a una platea assente. Siamo davvero dalle parti di Luigi Pirandello, e di quella novella, l’Eresia Catara, che racconta dell’anziano professore universitario che fa l’ultima lezione della sua vita, sui catari, appunto, convinto di avere, finalmente, il giusto tributo, e una sala piena di studenti ad ascoltarlo, non accorgendosi, invece, a causa della sua cecità parziale, che nella penombra non ci sono persone, ma solo cappotti, posati dai ragazzi che stanno seguendo un corso nella stanza accanto.
E nel teatro Pirandello neanche i cappotti ci sono a seguire l’evento. Arriva uno degli organizzatori e spiega alla giornalista che in realtà l’inaugurazione è stata al mattino, con le scuole, che è tutto un malinteso, si arrampica sugli specchi, con un fazzoletto si asciuga il sudore. Alle sue spalle arriva infine un altro organizzatore, un signore d’altri tempi, sembra, mite, si chiama Alberto Re, settantotto anni, imprenditore in pensione, con la passione per gli eventi.
Si presenta con un bacia mano, non sfugge alle domande della giornalista. «Ha ragione – le dice – abbiamo sbagliato qualcosa». Non c’è nessuno, in questa come in altre serate. Sono stati spesi soldi pubblici, trentacinquemila euro «Si – ribatte lui – ma abbiamo centocinquanta ospiti. Lasciateci terminare il festival domenica, e faremo il bilancio». Alla domenica, però, Alberto Re non ci arriverà.
Le immagini del teatro vuoto diventano virali. Sui social è tutto un commentare. «C’era solo il vigile Pasquale e i vigili del fuoco» è una delle battute innocenti. Si chiedono, in tanti, come vengono spesi i soldi pubblici. C’è chi invoca gli unici procacciatori di giustizia (mediatica) in Italia, “Striscia” e le “Iene”. Da lì all’insulto il passo è breve, la critica lascia spazio alla gogna, il dubbio alla maldicenza. Finisce che Alberto Re, la sera di mercoledì 22 Novembre, lascia il Teatro Pirandello dopo le ultime proiezioni a vuoto. Torna a casa. Scrive una lettera dove dice di non riuscire a sostenere più le critiche e le offese. Si spara un colpo di pistola in testa. Muore in ospedale dopo qualche ora di agonia.
«Alberto Re mai si è sottratto alla onestà intellettuale e sempre ha sorriso alle storture che possono capitare. Fino a qualche giorno fa. Poi l’onta che sale e che scalfisce, che non arretra e che violenta verbalmente una persona, ha consumato il vero danno», scrive adesso la famiglia in una lettera aperta inviata sabato 25 Novembre, il giorno dei funerali, alla stampa.
Per i familiari, l’imprenditore «voleva contribuire a elevare il dibattito culturale della sua amata Agrigento, non gli è stato concesso, sui social viaggiano sentenze di condanna senza nemmeno il capo di imputazione, si legge nella nota. Si apra una riflessione su quello che è accaduto, lo si deve ad Alberto, perché mai più ci si possa trovare di fronte alla tempesta senza vestiti. Perché mai più ci si scaraventi contro un uomo con tale veemenza». Ancora: «È cruciale evitare il ripetersi di simili vicende, la critica politica e giornalistica legittima ha superato i confini dell’umanità. Tutti coloro che ricoprono ruoli amministrativi devono impegnarsi a prevenire simili disonori».
Ironia della sorte (si, sempre Pirandello, ma al cubo), la figlia di Alberto Re è anche lei imprenditrice, si chiama Natalia, è impegnata nel sociale e ha fondato il “Movimento per la gentilezza”, per promuovere il senso civico e il rispetto delle persone. Organizza ogni anno decine di eventi. «Mio padre è stata vittima di tutto ciò che io combatto. È un dolore che non so descrivere. Fino a quando non ti capita in prima persona, non capisci la potenza devastante dell’odio in rete». Che arriva anche a uccidere chi, come Re, non era abituato alla ferocia degli hater.
«Era un linguaggio che non riusciva a decifrare, e pensare che alle critiche era abituato, sin da quando aveva organizzato i mondiali di ciclismo in Sicilia». Ma qui è qualcosa di diverso. Non sono state semplici critiche, ma qualcosa che lo ha travolto «fino a pensare – conclude la figlia – di aver perso per sempre la sua onorabilità, condannato a morte dalle sentenze sui social».
La Procura indaga per istigazione al suicidio. «Spero solo che questo enorme dolore serva a far parlare sulla violenza gratuita dei social, sui suoi effetti mortali», aggiunge Natalia Re. «Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti» scriveva Pirandello. Le maschere, e i volti. Non aveva ancora conosciuto la follia dei social network.
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