Respingendo i rilievi mossi dalla difesa (avvocato Giuseppe Sciacca), la quinta sezione penale della Corte di Cassazione (presidente Alfredo Guardiano) ha confermato la condanna per bancarotta “impropria” inflitta, prima dal Tribunale di Marsala e poi dalla Corte d’appello di Palermo, alla mazarese Valentina Norrito, 53 anni, moglie Giovanni Savalle, commercialista e imprenditore, al
quale nell’estate 2018 venne sequestrato un patrimonio valutato in circa 63 milioni di euro per il sospetto che tutta quella ricchezza (22 complessi aziendali, 12 pacchetti di partecipazione al capitale di altrettante società, 28 rapporti bancari, 47 fabbricati, 8 autoveicoli e l'ex Kempinski, albergo e ristorante di lusso, poi Giardino di Costanza) fosse stata accumulata grazie alla vicinanza con il boss mafioso Matteo Messina Denaro. Accuse cadute lo scorso gennaio, quando la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani affermò che “gli elementi probatori forniti (dal Pm ndr) non dimostrano una diretta partecipazione del proposto con appartenenti a cosa nostra, presentando soltanto dati irrilevanti ai fini della formulazione, a carico di Savalle Giovanni, di un giudizio di "intraneita" o "vicinanza" ad "ambienti mafiosi".
Con la sentenza impugnata, spiegano adesso i giudici di Cassazione nell’atto finale del processo alla Norrito, “la Corte di appello di Palermo, ha confermato la decisione del Tribunale di Marsala - che aveva dichiarato Valentina Norrito colpevole di bancarotta impropria per cagionamento doloso del fallimento nella qualità di legale rappresentante, dal 15 gennaio 2010 al 02 settembre 2011, della società cooperativa "Giardino di Costanza" dichiarata fallita con sentenza del 22 aprile 2015, l'avere omesso - pur rilevando in sede di approvazione del progetto di bilancio la riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo - di convocare l'assemblea per procedere allo scioglimento della società o al ripianamento delle perdite, in tal modo aggravando il dissesto della società che conseguiva ulteriori perdite negli anni 2011, 2012, 2013, per svariati milioni di euro; l'avere omesso il pagamento dei contributi previdenziali e imposte”.
E secondo la ricostruzione dei giudici di merito, rileva ancora la Cassazione, “le operazioni dolose erano ravvisabili sia nell'omessa convocazione dell'assemblea dei soci, in presenza di una perdita di oltre un milione di euro, per procedere allo scioglimento della società o al ripianamento delle perdite, in tal modo aggravando il dissesto della società che conseguiva ulteriori perdite negli anni 2011, 2012, 2013, per svariati milioni di euro; sia nel mancato pagamento di contributi previdenziali e imposte, così aumentando ingiustificatamente l'esposizione debitoria della società, e cagionandone il fallimento”. Quattro i motivi del ricorso per cassazione avanzato dalla difesa (erronea applicazione della legge fallimentare e del codice civile, correlati vizi della motivazione, etc.). Tutti, però, bocciati. Il ricorso è stato, infatti, dichiarato “inammissibile”.