La parola fine - almeno dal punto di vista giudiziario - sulla cosiddetta "trattativa" Stato - mafia. Lo ha messo la Cassazione, pubblicando le motivazioni della sentenza con cui ha, di fatto, smontato tutto il castello accusatorio che ha tenuto banco in Italia negli ultimi venti anni.
La Corte di assise di appello" ha "invertito i poli del ragionamento indiziario" in quanto "l'esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell'indizio", inoltre la Corte di assise di appello di Palermo "non ha osservato il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto".
Con queste motivazioni - si legge nel verdetto 45506 della Cassazione depositato gli ermellini - gli 'ermellini' hanno confermato l'assoluzione nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia degli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e dell'ex parlamentare Marcello Dell'Utri.
Ad avviso degli 'ermellini', "come rilevato dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e dalle difese degli imputati, tuttavia, l'argomento del 'nessun altro avrebbe potuto' si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo". Secondo la Suprema Corte, i giudici di merito dell'appello - convinti della tesi che ai mafiosi il Guardasigilli Conso non rinnovò' il 41bis per cercare di spegnere la stagione stragista e non, come lo stesso Conso sostenne, per adeguarsi alle indicazioni della Consulta - hanno sbagliato a ritenere "che solo Mori potesse aver rivelato l'informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all'interno di Cosa Nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al Ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo" di Mori "e che non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi".
Sul punto, gli 'ermellini' rilevano che le difese degli imputati avevano fatto presente nel giudizio di appello che "per quanto emerso nel giudizio di primo grado, la consapevolezza della spaccatura interna a Cosa Nostra, tra l'ala stragista e l'ala moderata non sarebbe stata esclusiva di Mario Mori, ma fosse una conoscenza acquisita per lo meno in qualificati ambienti investigativi". "Questo dato - segnala il verdetto - emergerebbe dalla nota dello Sco del 12 agosto 1993, a firma Manganelli, relativa a una 'profonda spaccatura' negli esponenti di maggior spicco di Cosa Nostra e dalla nota della Dia del 10 agosto 1993, a firma De Gennaro, in ordine all'esistenza, secondo le dichiarazioni di Salvatore Cancemi, di 'un profondo contrasto tra mafia stragista ed un'altra, invece, pacifista e quasi rassegnata". Tale spaccatura, secondo le difese, aggiunge il verdetto "sarebbe, peraltro, risultata dalle dichiarazioni rese dal Presidente della Repubblica in dibattimento e dalle dichiarazioni di Paolo Borsellino in una intervista del 3 luglio 1993". Per la Cassazione, "fermo restando il riconoscimento per l'impegno profuso nell'attività istruttoria dai giudici di merito, deve, tuttavia, rilevarsi che la sentenza" emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo il 23 settembre 2021 "e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico". "Anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l' accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell'imputazione e deve condotto - conclude la Suprema Corte - nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla Costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell'oltre ragionevole dubbio".
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