Sabato alle 17.30, al Teatro Comunale di Marsala, si terrà l’incontro Per il caro Nino, serata dedicata all’opera di Nino De Vita. Insieme al poeta di Cutusio interverranno Massimo Onofri, Marco Marino e Paola Silvia Dolci. L’evento è organizzato dalla realtà di 38° Parallelo.
di Marco Marino
Fin dalle pitture rupestri delle Grotte di Lascaux, che risalgono a circa 17 mila anni fa, sono gli animali a raccontare la vita e i desideri degli umani. Potremmo dire che quei dipinti parietali - che raffigurano bovini, cavalli e cervi - hanno tramandato la prima forma di linguaggio, il primo dialogo pieno di significato, quello che migliaia di anni dopo gli antichi greci avrebbe chiamato con la parola logos.
È ironico, allora, notare che, sempre nel mondo greco, gli animali vengano chiamati con un nome che indica l’esatto contrario del logos, del linguaggio, del discorso, della parola: infatti, per i greci gli animali diventano àloga, ovvero «quelli che non posseggono la parola», «quelli che non hanno la facoltà del linguaggio».
Un pregiudizio specista, che tradisce un senso di gerarchia tra gli esseri viventi. Un pregiudizio che, per fortuna, la poesia, da Omero in poi, ha sempre sconfessato attribuendo agli animali facoltà di pensiero profonde e complesse. Spesso superiori agli umani, a cui hanno inferto memorabili lezioni.
Nell’opera di Nino De Vita, e in particolare nei suoi Cùntura (ripubblicati in nuova veste editoriale da Le Lettere con dei testi totalmente rivisti dall’autore e diversi inediti), questa lezione antispecista viene letta in un modo davvero molto originale. Per il poeta di Marsala, le sue favole – in cui parlano proprio tutti, animali, piante e angeli – sono sempre dedicate «a chi resta senza parole»: sono storie che generano il continuo sentimento dell’afasia, della parola che manca, dell’incapacità di dire il mondo. Per la sua bellezza, per la sua crudeltà o per la sua incomprensibilità. Sono, quindi, favole dedicate agli àloga, a chi non ha parole: all’interno di una rumorosa natura, queste silenziose figure possono essere indistintamente animali, umani o piante. Il mondo sconvolge tutti allo stesso modo, è incomprensibile a tutti allo stesso modo, e nessuno è immune dallo stupore o dal mistero che ti sottrae al linguaggio. Anzi, essere parte di quella natura rumorosa significa proprio appartenere alla sottrazione.
C’è un racconto in versi, intitolato «Riscursa attangalati» (“Discorsi strampalati”), in cui una fila di formiche sale e scende sul tronco di un pero. Un bambino ne parla meravigliato, un gatto ne parla meravigliato, il pero stesso ne parla, afflitto dal fastidio che quei tanti ospiti infliggono al suo corpo. Ma il componimento termina col significativo silenzio delle formiche:
’I furmìculi, iddi – ch’acchianàvanu,
scinnìanu, mpustati -
ammezzo a ddi riscursi
attangalati ’un nnìssiru
nenti.
Quella che Nino De Vita narra, in effetti, è una realtà che ha regole diverse dal quotidiano urbano a cui siamo abituati. Una realtà in cui tutti possono egualmente parlare e ammutolirsi, dove uno spaventapasseri può sparare al contadino che l’ha creato, una bambola morire di dispiacere per essere stata abbandonata, un asino pregare Dio perché venga mondato dai suoi peccati.
A leggerli in sequenza, questi episodi sembrerebbero giustificati dallo spazio della poesia, dalla scrittura in endecasillabi e settenari, che si porrebbe come luogo del possibile e dell’impensabile. Ma sarebbe riduttivo limitarsi a tale lettura. Perché per De Vita questi episodi non si giustificano soltanto in quanto fatti poetici, ma soprattutto in quanto fatti accaduti nella contrada di Cutusio, la frazione di Marsala in cui si svolge l’intera opera di De Vita.
Cutusio è un luogo di confine, da una parte circondato dalla fitta campagna, dall’altra aperto al mare della laguna dello Stagnone. Una soglia tra il noto e l’ignoto, tra il miracolo e il mistero. Viene in mente un parallelo con la Macondo di Gabriel Garcia Marquez, e forse non si andrebbe lontano dal vero.
Restando, però, su un piano più terragno, senza scomodare realismi magici e altre simili categorie letterarie, basterebbe sottolineare che, quello che accade nei racconti di De Vita, è quello che accade all’interno della natura e di cui stiamo inesorabilmente perdendo memoria. Perciò ci sembrano narrazioni dell’assurdo. Ma quelli di De Vita, più che semplici finzioni, sono in realtà ricordi veri e propri di un luogo che sta smettendo di esistere. Per questo bisogna custodirne la voce, il suo dialetto, e tutte le storie che in esso sono germogliate. Mettendo i piedi a Cutusio, chi può davvero affermare che non sia vera la storia del maialino Ntonu che si innamora del pavone? Chi può dire che non sia vera la storia dell’angioletto che protegge il Chiaparotta?
Ecco, bisogna mettere i piedi a Cutusio, entrare dentro le storie, dentro i suoi cùntura, nella loro magia, pronunciarle con la loro voce, in una «pura, classica lingua simile all’arabo, al greco, all’ebraico» come scriveva Vincenzo Consolo nell’Olivo e l’olivastro.