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26/09/2023 06:00:00

Messina Denaro non era il capo della mafia, ecco quello che molti non sanno

 Matteo Messina Denaro non era il capo della mafia. Non era il successore di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Diversamente non si capirebbe perché Riina ne parlasse malissimo durante una delle sue ore d’aria in carcere, già nel 2013, quando al suo compagno di passeggiata diceva che  “questo che fa il latitante” si occupa solo dei propri affari con i pali eolici, al posto di interessarsi di Cosa nostra. “I pali della luce – diceva Riina intercettato - se la potrebbe mettere nel culo la luce, ci farebbe più figura”, non lasciando spazio ad interpretazioni benevole.

 

Si dirà, ma almeno era il capo indiscusso della provincia di Trapani. Siamo sicuri?

E allora perché ad Alcamo, già prima del 2007 succede che per dirimere una controversia tra boss non sia stato chiesto l’intervento di Matteo Messina Denaro, ma quello dei Lo Piccolo?

Il fatto è questo: Ignazio Melodia (alias “testa d’aceddu”) della famiglia mafiosa di Alcamo, voleva risolvere il rapporto tra il padre Diego e lo zio Cola, che tra loro erano in fortissimo contrasto. Per risolvere  la controversia,  testa d’aceddu al posto di rivolgersi a Messina Denaro, “competente” per la provincia di Trapani, decide di contattare i Lo Piccolo di Palermo, come se nel trapanese non comandasse nessuno. Perché?

 

Allora, se non in tutta la provincia di Trapani, almeno fino a prima della malattia, possiamo pensare che Matteo Messina Denaro comandasse a Castelvetrano. Anche qui, siamo sicuri?

E allora perché nel 2014 rubano nel negozio del cognato del boss, Saro Allegra? L’isola che non c’è, era questo il nome del locale dove i ladri, penetrando da una vecchia abitazione attigua disabitata, hanno portato via abiti, borse ed accessori per un valore di circa 30 mila euro. Come è stato possibile?

Perché nel 2014, l’altro cognato del boss, Gaspare Como, non era affatto contento di quello che stava succedendo: “Castelvetrano è diventato un paese che sono tutti ‘alla rotta’ (allo sbando n.d.r.) – era emerso dall’operazione antimafia Eden 2 - sparano pure ai cartelli… vanno facendo un mare di danno, quando è successo, gli abbiamo detto: ‘Picciotti… datevi una regolata, perché vedi che qua succedono cose brutte! Picciotti, finitela di fare danni!’”.

Perché poi, nel gennaio del 2016, il titolare di una panineria ambulante uccide con una fucilata un quarantenne pregiudicato che lo vessava da tempo chiedendo soldi e non pagando mai le consumazioni? In altri tempi, sarebbe bastato chiedere e il boss avrebbe ripristinato l’ordine. Invece niente.

E infine, quel furto nel 2017 nella casa di campagna della sorella, Rosalia Messina Denaro: infissi forzati, telai delle porte divelti, quadri e oggetti di valore spariti e via anche i cavi di rame del sistema elettrico. I responsabili non furono mai beccati, nonostante Gaspare Como avesse sguinzagliato i suoi uomini più fidati.

 

C’è di più. Da una relazione della Dia del 2018, il ruolo di Matteo Messina Denaro era già stato definito più formale che sostanziale. Secondo il questore di Palermo Renato Cortese, il boss non avrebbe avuto più alcun ruolo nell’organizzazione e gli affiliati non renderebbero più conto a lui.

E per il generale Giuseppe Governale, ex comandante del ROS e poi direttore della Dia, pur restando a capo della cosca trapanese non sarebbe più operativo da tempo. Mentre il presidente della Corte d’Appello di Palermo, Matteo Frasca, competente anche per il distretto di Trapani, aveva escluso la possibilità che Messina Denaro possa influire sulle dinamiche della mafia palermitana.

E va bene, si dirà che forse negli ultimi anni, anche prima della malattia, avrà contato poco.

 

Però… ha ammazzato un sacco di gente, sequestrato e ucciso il piccolo Di Matteo, strangolato una donna incinta, fatto le stragi del ’92 e ’93…

Andiamo con ordine. Che abbia ammazzato un sacco di gente, è vero. Così come è vero che ha partecipato alla decisione di sequestrare il piccolo di Matteo. Ma non ha dato lui l’ordine di ucciderlo. A farlo è stato Giovanni Brusca, che disse a Giuseppe Monticciolo: “Allibèrtati du cagnuleddu” (liberati del cagnolino). In molti hanno detto che almeno avrebbe potuto impedirlo e non l’ha fatto. Ma non è vero, non avrebbe potuto impedirlo. Brusca prendeva ordini da Riina, non da Messina Denaro, in questioni che per altro riguardavano il territorio palermitano, non quello trapanese. E’ abbastanza superfluo immaginare le reazioni degli altri (e poi di Totò Riina), nel caso lui avesse detto “E no, i bambini non si toccano!”.

 

E a strangolare la donna incinta?

Si trattava di Antonella Bonomo, fidanzata  del capomandamento di Alcamo Vincenzo Milazzo. Vennero uccisi entrambi a distanza di 24 ore l’uno dall’altro. Secondo il pentito Sinacori, Milazzo aveva fatto l’errore di brindare alla morte di Riina e dei fratelli Brusca, mentre lei sarebbe stata eliminata perché sapeva troppo ed era anche cugina di un agente dei servizi segreti. A strangolare la ragazza non fu Messina Denaro, ma Leoluca Bagarella (cognato di Riina), mentre il boss castelvetranese aspettava fuori insieme allo stesso Sinacori e a Francesco Geraci. Dopo lo strangolamento, fu incaprettata in modo da infilarla in un sacco e trasportarla nel bagagliaio della macchina. Il pentito Gioacchino La Barbera aggiunse un particolare ancora più raccapricciante: “La ragazza si muoveva ancora, aveva gli ultimi sussulti… Giuseppe Ferro cominciò a tirarle dei calci spappolandole la milza”.

Non è vero dunque, come spesso viene raccontato, che Messina Denaro ha strangolato la donna con le sue mani. Certo, non è meno colpevole: era lì e ha partecipato all’agguato. Avrebbe potuto evitarlo? No, come sopra.

 

Inoltre, ha deciso lui le stragi? Si, certo, insieme a Totò Riina. Ma non era un pari grado del capo dei capi. Era semplicemente uno che aveva portato avanti la decisione del padre, Francesco Messina Denaro: stare dalla parte dei corleonesi nella guerra di mafia contro i palermitani. Ecco, se Totò Riina avesse detto in una delle tante riunioni “Che ne dite di fare le stragi?” e Matteo Messina Denaro avesse risposto “Non lo so, zu Totò, io eviterei”, il 16 gennaio non ci sarebbe stato bisogno di arrestare nessuno.

 

Ma noi abbiamo avuto bisogno, durante questi trent’anni di latitanza, di attribuire al “mostro” più di quello che ha fatto. Come se ci fosse stato il rischio di perdonargli le colpe, se queste non fossero state davvero di un orrore indicibile.

Oggi, sul web, assistiamo pure alle condoglianze alla famiglia del boss da parte di tanti castelvetranesi. Ma anche la magistratura ci ha messo del suo nel consolidare il mito (negativo, è ovvio), quando ogni operazione antimafia ed ogni traffico erano “all’ombra di Messina Denaro”.

Oggi, non sappiamo però chi comanda al posto suo, anche se è probabile che il passaggio di consegne sarà avvenuto almeno un decennio prima della sua malattia. Non sappiamo chi l’ha coperto e chi ha fatto affari con lui in questi trent’anni. E forse non lo sapremo mai, proprio com’è avvenuto per Riina e Provenzano.

 

In fondo però, Matteo Messina Denaro è stato fortunato ad essere un criminale italiano. In un carcere sudamericano, non avrebbe potuto correggere chi lo interrogava, chiedendogli di pronunciare Belice con l’accento sulla “i”. E certamente non avrebbe ricevuto tutte le terapie che l’Italia gli ha garantito fino all’ultimo.

 

Egidio Morici



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