I lavori di bacino, comprendenti la pulizia dello scafo, il controllo delle saldature, a pitturazione, ma anche i lavori di straordinaria manutenzione, come la revisione del motore principale, dell’asse portaelica, dei generatori di corrente e latro, per il peschereccio "Massimo Garau" consistettero anche nella costruzione di un alloggio in ferro. Tale alloggio, in gergo “cassaro”, era una costruzione in ferro lungo sei metri, alto due e venti e profondo tre metri e trenta, adagiato all’estrema poppa del peschereccio, in seguito indicato da alcuni dei periti nominati dall’accusa come il responsabile dell’affondamento del Massimo Garau, insieme ad altre due concause, il maltempo, che in effetti imperversava quel giorno, e un non meglio precisato sovraccarico del peschereccio. In realtà, le motivazioni furono ben altre e nella loro drammaticità molto più semplici di come l’abbiano potuto immaginare coloro i quali sancirono, in seguito, verità non proprio sostenibili.
I marinai Africani – Durante i lavori, i marinai africani vivevano a bordo del peschereccio, fatto che era a conoscenza di tutte le Autorità militari della città che avevano impartito delle precise disposizioni acché gli stessi non uscissero fuori dal perimetro del porto o del cantiere, dove si effettuavano i lavori o comunque rimanessero nelle loro vicinanze. Qualunque spostamento al di fuori dello stabilito avrebbe avuto bisogno di una autorizzazione da parte della Polizia di Stato. I marinai africani erano stati segnalati alle Autorità ancor prima del loro arrivo a Mazara, e a farlo era stato proprio l’armatore Pino Mazara, nella qualità di responsabile legale. Essendo extracomunitari, al loro arrivo gli furono controllati e successivamente trattenuti, presso gli uffici militari passaporti e libretti di navigazione. “Fu triste ascoltare, anni dopo, alcuni funzionari affermare la mancata conoscenza della presenza dei marinai africani in territorio mazarese, il tutto, forse, per attribuire loro la natura di clandestini, cosa che probabilmente era utile alla causa. Da tale falsa caratterizzazione ne derivava, come conseguenza logica, la figura di un armatore schiavista, trafficante di braccia, successivamente infamato, addirittura anche per altri indicibili traffici”, così scrive Gaspare Bilardello nel libro Massimo Garau – La vera storia del Naufragio
L’equipaggio del Massimo Garau – Il comandante Paolo Paleino, direttore di macchina Geo Caselli, 1° ufficiale di coperta Matteo Asaro, cuoco Girolamo Perez, boscò Etsy Kofi, 1° ufficiale di macchina Quartey Solomon Kinarte, timoniere Atta Kojo, ufficiale di coperta Ernest Tagbor, ingrassatore Agba Atomtani, ingrassatore Zormelo Kwasi, retiere Afful Daniel, marinaio semplice Emmanuel Semenya, marinaio semplice Martey Daniel, marinaio semplice Edru Sam, marinaio semplice Anumu Precious, marinaio semplice Daniel Addison, marinaio semplice Aklade Kloami, marinaio semplice Kumade Ben, marinaio semplice Adoudou Rigenert. Ecco chi erano alcuni dei marinai africani del Garau.
Agba Atomtani aveva 23 anni, era nato nel 1964 ed era ufficiale di coperta, era sposato e la moglie attendeva il loro bambino. Non vedeva l’ora di tornare a casa e attendere l’arrivo del loro bambino che da lì a pochi giorni la moglie avrebbe dato alla luce. Era un ragazzo istruito, aveva avuto la fortuna di studiare ad Accra, capitale del Ghana da dove proveniva. Il suo sogno era navigare e conoscere il mondo. Diceva che l’Africa era il continente più bello del mondo anche con le sue contraddizioni. Voleva che i suoi figli crescessero in quei luoghi. Ripeteva che basta il suo sacrificio, rimanendo lontano da casa e dalla sua Nazione per anni.
Ernest Tagbor aveva due genitori gravemente malati di una malattia che in Italia non avrebbe destato preoccupazione ma nel Togo di quegli anni era considerata incurabile: era la malaria. La cosa più sconvolgente nella sua storia è che aveva affidato ai suoi nonni i due figli piccoli, di tre e cinque anni, dopo la morte della sua giovane moglie sempre per malaria.
Atta kojo, anche lui Togolese, non era sposato ma aveva una fidanzata che lo attendeva e si sarebbero sposati al suo rientro a casa. Avrebbero dovuto fare una grande festa nel villaggio di pescatori di Lomè di dove era originario. Un affetto particolare aveva l’armatore Pino Mazara per questo ragazzo poco più che trentenne. In Nigeria nel corso di una rapina avvenute nelle strade di Lagos, difese il suo armatore con il proprio corpo, procurandosi una ferita.
Etsi Kofi, un beniniano, uomo di fatica addetto ai verricelli, argani idraulici utilizzati per salpare le reti durante le fasi della pesca, ma anche per spostare grossi carichi a terra grazie delle robusti funi d’acciaio che, collegate ad un tamburo rotante, ne permettono il movimento. Per dire in maniera scherzosa quanto fosse forte Kofi, si diceva che le sue braccia bastavano per tutte le operazioni senza il bisogno dei verricelli.
Solomon Kinarte per le sue grandi capacità era quasi un pari grado del direttore e responsabile di macchina, immediato sottoposto al direttore, responsabilità quest’ultima affidata normalmente ad un italiano, è tra le più gravose responsabilità che si assumono su una barca da pesca. Da questa figura dipende il buon funzionamento del motore principale. Risponde nei confronti dell’armatore del comportamento, delle capacità e attitudini dei “ragazzi di macchina”, che stanno sotto lui e insieme al boscò, o capopesca, è colui il quale tiene i rapporti con il comandante della nave, con cui si interfaccia per i problemi che via via si incontrano nelle fasi della navigazione e durante l’esercizio dell’attività di pesca. Solomon fu uno dei quattro marinai trovati sulla scialuppa di salvataggio due giorni dopo il naufragio del Massimo Garau. Era ancora vivo ed esalò l’ultimo respiro tra le braccia di uno degli ufficiali del Pietro Novelli, il traghetto che recuperò la scialuppa. I quattro mariani trovati a bordo della scialuppa, come riportano i documenti dell’inchiesta sommaria, morirono per assideramento, sebbene non fu effettuata una autopsia. Questa fu un’altra delle tante stranezze di questo misterioso e drammatico naufragio.
I marinai africani arrivarono a Mazara pieni di speranza in quell’autunno del 1986. Erano quindi esperti pescatori, otto dei quali imbarcati sul Massimo Garau con regolare contratto e sette altri loro colleghi imbarcati sul Poppea, che insieme al Veltro, al Salvatore Giacalone e altri due grossi pescherecci in costruzione ( Sirio e Vega, varati nel 1989), costituivano la flotta oceanica dell’armatore Pino Mazara.
Bordo libero compromesso e sovraccarico, ipotesi suggestive - Alcune testimonianze raccattate al porto, attraverso dei soggetti presenti casualmente al momento della partenza del peschereccio, furono dettate più dalla suggestione e dall’impressione, a seguito dell’affondamento del Massimo Garau, che effettivamente dalla certezza della presenza di bordo libero compromesso a causa di un sovraccarico. Dalle risultanze delle indagini e dalle perizie, risultò, in seguito, ininfluente ai fini della sicurezza della navigazione, che si sarebbe dopo poche ore di navigazione, assestato grazie alla diminuzione di carburante che man mano si andava consumando durante il viaggio. Non è escluso che il comandante lo abbia fatto ancor prima, durante la navigazione magari, traferendo i liquidi verso il centro prora. Quale marca di bordo libero avevano visto i testimoni, posto che il Massimo Garau non ne disponeva? Sulla base di che cosa hanno potuto capire che si trattava di un peschereccio in forte sovraccarico? E quali ragioni hanno indotto la Capitaneria di porto, presente in banchina durante le fasi della partenza del peschereccio, a dare l’autorizzazione a mollare le cime? Nessuno di loro, esperti per antonomasia, si rese conto o ebbe la sensazione che la riserva di galleggiabilità era compromessa da un sovraccarico così evidente come si è voluto descrivere? Domande e molte altre ancora, che non hanno avuto risposta durante le diverse fasi processuali. La stessa accusa in molti casi ebbe il buonsenso di fare larghi passi indietro rispetto alle loro precedenti convinzioni.
continua...
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