Ci sono troppe cose da fare.
Luglio e Agosto, in provincia di Trapani, sono fatte di questo: settimane sovraffollate di appuntamenti, incontri, presentazioni, spettacolo: la vita culturale della Sicilia “west coast” si concentra tutta in circa quaranta giorni.
I turisti vanno intrattenuti. E non solo quelli: Luglio e Agosto sono i mesi del “ritorno a casa”, ritorno di amici e parenti in ferie, abituati ad altro, che qui arrivano e poi si annoiano; bisogna perciò attivarsi, organizzare, non lasciare alcuna giornata alla noia: riempirle tutte.
E il resto dell’anno?
Il resto dell’anno i giorni sono dell’abbandono.
Mi ricorda, tutto questo, la frenesia del depresso: che si macera nelle stanze della sua solitudine quando può, e quando deve invece si costringe a indossare l’abito migliore, di festa, e il sorriso di ordinanza.
Sto bene, stiamo bene. Stiamo tutti bene.
Anche se, forse, non è proprio così tanto vero.
La vita culturale è una delle esigenze dell’intelletto umano; uno dei suoi appetiti. Bisogna nutrire la mente anche di questo, e ciò non vuol dire darsi all’intellettualismo, né tantomeno farne un mezzo per dare sfoggio di sé. Significa piuttosto che la vita lavorativa, familiare e sociale, da sole, non riescono a dare pace all’anima. Manca un tassello, quello della cultura, che è stimolo per le nostre teste stanche, è impulso capace di riportarle in vita.
Chi vive da queste parti ben oltre i mesi estivi sa che, invece, delle nostre teste importa a pochi, forse a nessuno. Superato l’equinozio di autunno, ci si aspetta da noi un letargo profondo: forse un riposo meritato, dopo tanto accanimento estivo; ci si può sentire vivi solo un tanto all’anno.
Succede quando la cultura viene costretta, con la forza, a legarsi con il profitto. Quando, legandosi indissolubilmente al profitto, finisce per subordinarsi al turismo, alla turistificazione. Diciamolo chiaramente, si fa cultura per fare cassa. E non siamo stati noi a pensarci per primi: così è nel mondo di oggi, ci si muove soltanto dentro spazi di guadagno, e se si parla di “opportunità” è in relazione a un ritorno economico.
Furbizia? Una Sicilia che ha imparato a sfruttare quello che ha?
Per niente. Perché, in effetti, la Sicilia non ha niente: solo un numero progressivo di partenze senza ritorno, e una fuga massiva di cervelli e di anime. Da settembre a giugno, la vita da queste parti si riduce a due-tre luoghi familiari, due-tre discorsi già sentiti, usurati. Nessuno stimolo possibile: perché, da soli, noi abitanti, non generiamo profitto a sufficienza.
Non si fa un festival per un centinaio di persone. Non si organizza un ciclo di spettacoli per decine di utenti. Per di più, nella logica di chi progetta, organizza e fa, il popolo dei residenti non è nemmeno un “pubblico di qualità”: a noi le sagre, in format replicabili; ai turisti e ai villeggianti, la cultura.
Già chiusi nei nostri piccoli spazi, in un mondo piccolo (mal collegato, lontano dai centri, lontano dal resto d’Italia e di Europa), perdiamo pure l’ultima boccata d’aria per il nostro spirito. Soffochiamo, ma nella noia; e ci accontentiamo di uno sguardo corto, che ci fa miopi.
Daria Costanzo