Fino agli anni settanta del secolo scorso erano le “invisibili”. Silenziosamente e senza volto le ricamatrici siciliane arricchivano le vetrine dei lussuosi negozi di Milano, Venezia, Firenze, Roma.
I loro ricami impreziosivano lenzuola, tovaglie, tende, fazzoletti, vestiti da sposa.
Ma guai a svelare la loro origine. Per lo più, ignoti paesini siciliani.
La loro provenienza? Meglio indicare località come le Fiandre, Burano, Cantù.
E tuttavia, quella delle ricamatrici siciliane era un’arte di altissimo valore. Vantava antichissime tradizioni risalenti al medio evo arabo e bizantino. I loro manufatti erano apprezzati sui mercati del bacino meridionale ed orientale del mediterraneo.
Una tecnica tramandata da madre in figlia o appresa nei laboratori gestiti dalle cosiddette “mastre”, laiche o suore dei conventi.
Oltre ad essere frutto di un sapere delle mani, quelle opere erano soprattutto il risultato concreto di un sapere delle menti.
Viene detta tradizione e che un comune manuale di etnologia definisce cultura materiale di un popolo.
Una cultura, però, deprezzata e oggetto di colonizzazione. Come tanti altri prodotti siciliani. Come il vino, ad esempio. Che trovava un mercato solo sotto mentite spoglie. Lo chiamavano “mosto muto”. Ma tanto eloquente nel dare vigore e valore agli scadenti mosti del nord.
In economia, tale sistema ha un nome ben preciso, si chiama colonialismo.
Un sistema ben collaudato, anche quello dei ricami che prendeva la via del Nord. Periodicamente gli intermediari raggiungevano i vicoli e i casolari dei paesini siciliani per ordinare e ritirare la merce.
Paradossalmente, venivano percepiti come “benefattori”. Le poche lire ricevute servivavono ad arrotondare l’esiguo bilancio familiare.
Tutto sembrava dover durare per le lunghe. Ma i primi anni settanta del secolo scorso furono anni rivoluzionari. Si mise tutto in discussione, nelle scuole, nelle fabbriche, nei campi. La ventata di cambiamento attraversò’ anche la Sicilia.
Nell’entroterra siciliano scoppiò quella che fu definita “la rivolta delle ricamatrici”. Una lotta tutta al femminile, che denunciava lo sfruttamento cui erano sottoposte. Autentica rivendicazione femminista. Oggi si direbbe lotta per un salio minimo garantito
Anche a Salemi le artigiane fecero sentire la loro voce, in modo originale.
Allestirono una mostra delle loro produzioni nella sede dell’Arci di via dei Mille. Riempirono un salone di oltre 200mq . Ebbe tanta risonanza da essere visitata persino dall’allora Presidente dell’Assemblea siciliana Pancrazio De Pasquale.
Dopo quella degli zolfatari, le lotte delle ricamatrici scoperchiarono un mondo di sfruttamento sino ad allora sconosciuto. Si “scoprì”, ad esempio, che gran parte della moda si reggeva sui bassi salari del lavoro delle donne e che vi erano numerosi laboratori dove si lavorava i nero in nero per conto dei grandi marchi.
Da quelle lotte nacque una legge. Finalmente si sarebbe regolamentato il lavoro a domicilio. Venne fissata persino una paga base di almeno 150 lire l’ora.
Fatta la legge, trovato l’inganno, diceva un vecchio sconsolante detto popolare. E poi, la Sicilia non e’ la terra dove tutto cambia per tutto restare com’e’?
Triste considerazione, ma, ahimè, reale.
L’odiato mediatore nordista non si vide piu’. Il loro posto venne occupato da alcune ricamatrici anziane: le “signore”, come le chiamavano le apprendiste. Da questo momento saranno loro a gestire il traffico.
Da questo girone infernale, Anna Maria La Grassa, la protagonista della nostra storia, ha avuto la consapevolezza e la forza di venirne fuori, dopo averne fatto parte per diversi anni.
A soli 15 anni era già una perfetta ricamatrice. Aveva frequentato dei corsi. Poi, il passo obbligato. Arrivò anche per lei il periodo alle “dipendenze” della “mastra”. Sempre sostenuta dalla passione e da tanta volonta’. In contropartita, pochi soldi e mai un sorriso di apprezzamento, mai un attestato di bravura. Una tattica per deprezzare il valore dei lavori, senza dubbio, ma ogni volta, la consegna dei lavori per Anna Maria era un autentico tormento.
Poi, la presa di coscienza e la svolta. Decide di mettersi in gioco in modo autonomo affidandosi al giudizio diretto del pubblico senza intermediazioni.
La causa scatenante fu il covid. Dall’obbligo delle famigerate mascherine venne fuori l’idea di esorcizzare un oggetto che evoca cliniche e corsie d’ospedali.
Perché non creare mascherine personalizzate, colorate, con immagini ricamate a richiesta’? L’idea ebbe successo. In poche settimane centinaia di mascherine andarono a ruba. Tutto rigorosamente eseguito a mano e con l’aiuto di una vecchia ma sempre efficiente Singer.
Le buone idee, sono come le ciliegie. L’una tira l’altra. Dopo le mascherine sono arrivate diecine di oggetti.
Una produzione ampia, caratterizzata da uno stile inconfondibile e subito riconoscibile. Autentico artigianato. Che si ha solo quando si incontrano fantasia creativa e qualità dei materiali.
L'artigianato di qualità e’ destinato ad avere un elevato sviluppo. Il consumatore che vuole distinguersi, oggi non compra piu’ le marche conosciute. Le scarpe, gli abiti, le borse, i cappelli, gli accessori vari se li sceglie su misura.
Paradossalmente, in tempi di grande espansione della tecnologia digitale, il lavoro artigianale ritorna ad essere apprezzato perché sinonimo di qualità, distinzione, eccellenza. È diventato l’anti-prodotto, fuori dalla massa. Per questo piace.
Arte e artigianato sono figli l'una dell'altro: non per niente hanno lo stesso etimo.
Un’ iniziativa quella intrapresa Anna Maria La Grassa destinata ad avere successo sotto ogni punto di vista.
Il catalogo ( di cui pubblichiamo alcune foto) delle “Piccole Chicche” , il nome della linea creata, e’ molto ricco e ha i colori fantasmagorici della Sicilia: si va dalle coppole siciliane coloratissime, alle borse per signora da passeggio e per la spesa, ventagli, cravatte, ecc.
Diversi sono gli esercizi ad avere concesso degli spazi espositivi. Anche la pro Loco di Salemi
Persino il ministro leghista Salvini per farsi pubblicità ha diffuso una sua foto che lo ritrae con una stupenda cravatta “Piccole Chicche”.
In una regione in cui va male il lavoro delle donne e il livello occupazionale risulta inferiore a quelli degli anni precedenti di circa 4.500 unità, per il mancato recupero della componente femminile, sono le iniziative come questa che abbiamo raccontato a dovere essere incoraggiate concretamente attraverso agevolazioni finanziarie da parte dello Stato e della Regione.
Franco Ciro Lo Re