Ufficiali dell'Arma dei Carabinieri assolti, prescritti i mafiosi. La sesta Cassazione due giorni fa ma ha messo la parola fine alla Trattativa Stato-Mafia. Assolti gli ufficiali del Ros Mori, De Donno e Subranni e l'ex Senatore di Forza Italia Dell'Utri.
I giudici della sesta sezione annullano la sentenza d'appello senza rinvio con la formula "per non aver commesso il fatto" per quel che riguarda il generale Mario Mori, per il generale Antonio Subranni e per il colonnello Giuseppe De Donno.
I supremi giudici sono quindi andati oltre quanto già deciso dai giudici di secondo grado di Palermo perché nel fare cadere le accuse hanno utilizzato una formula più ampia.
Per Leoluca Bagarella condannato dai giudici di Appello di Palermo a 27 anni, dichiarata la prescrizione, come per il medico Antonino Cinà, ritenuto vicino a Totò Riina, a cui in secondo grado furono inflitti 12 anni di reclusione nell'ambito del procedimento sulla presunta trattativa stato-mafia. I giudici hanno infatti riqualificato i reati di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo. Con la riqualificazione il reato è andato in prescrizione.
Mori "parzialmente soddisfatto" - In aula, al momento della lettura del dispositivo, era presente Mori che lasciando la Cassazione ha affermato di sentirsi "parzialmente soddisfatto" della decisione "considerando che per 20 anni mi hanno tenuto sotto processo. Ero convinto di non avere fatto nulla, il mio mestiere lo conosco, so che se avessi sbagliato me ne sarei accorto". I magistrati non hanno quindi accolto le richieste del pg che aveva sollecitato un nuovo processo di appello per i tre ex Ros e per Bagarella e Cinà.
Nelle conclusioni della sua requisitoria, nell'udienza del 14 aprile scorso, il rappresentate dell'accusa aveva sollecitato "l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla minaccia nei confronti dei governi Amato e Ciampi".
Per il pg, la sentenza di secondo grado ha descritto "la trattativa negli anni ma non fa una precisa ricostruzione della minaccia e di come sia stata rivolta al governo" e lo fa solo in modo "congetturale". Con la decisione di oggi i giudici sostanzialmente affermano che le minacce furono soltanto dei meri tentativi da parte di alcuni esponenti di Cosa Nostra.
La sentenza del 2021 - I supremi giudici erano chiamati a decidere sul ricorso presentato dalla Procura generale del capoluogo siciliano dopo la sentenza del 23 settembre 2021 che ribaltò il verdetto assolvendo la gran parte degli imputati condannati in primo grado. In primo grado Mori e Subranni furono condannati a 12 anni mentre Giuseppe De Donno ad 8 anni. Nelle migliaia di pagine delle motivazioni della sentenza di secondo grado i giudici siciliani, spiegando le ragioni dell'assoluzione dal reato di minaccia a Corpo politico dello Stato e parlando del ruolo svolto dai militari dell'Arma, hanno scritto che "una volta assodato che la finalità perseguita, o comunque prioritaria, non fosse quella di salvare la vita all'ex ministro Mannino o ad altre figure di politici che rischiavano di fare la fine di Lima, nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all'escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell'ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane".
L'ex pm Antonio Ingroia attacca: "sentenza contraddittoria e pericolosa" - «Questa sentenza assolutoria manda un segnale ai cittadini: si può minacciare lo Stato, si possono intavolare trattative con la mafia e nessuno ne risponderà penalmente. Non un bel segnale». Commenta così Antonio Ingroia, ex pubblico ministero e oggi politico, gli ultimi sviluppi dell’inchiesta giudiziaria sulla presunta trattativa Stato-mafia. «La trattativa Stato-mafia si chiude con una sentenza dal sapore decisamente amaro. Secondo me, perfino simbolicamente pericoloso». Ingroia spiega così il suo punto di vista: «Sostanzialmente si riconosce che vi fu una minaccia nei confronti dello Stato, anche se ora in Cassazione si parla di una tentata minaccia. Quindi deve esserci stato quel principio di trattativa che ha dato luogo a tutto ciò. Eppure, tutti vengono prosciolti in un modo o nell’altro». Una formula che, secondo Ingroia, implica che il fatto c’è ed è stato commesso da qualcuno. «A me sembra una decisione contraddittoria. I mafiosi vengono dichiarati non assolti, ma prosciolti per prescrizione del reato. E se questo fatto non l’hanno commesso gli uomini dello Stato, allora chi lo ha commesso? Chi è l’ambasciatore di questa minaccia che ha dato luogo alla trattativa?», si chiede l’ex pubblico ministero. Se davvero non ci fosse stata nessuna trattativa, aggiunge Ingroia, gli imputati sarebbero stati assolti con una formula diversa, «perché il fatto non sussiste». Con la sentenza di oggi, invece, «lo Stato Italiano ammette di non potere e non riuscire a processare se stesso per le sue responsabilità», ragiona l’ex magistrato. Che poi conclude con un po’ di amarezza: «Leggeremo le motivazioni, ma non credo che con questa sentenza si sia fatta davvero giustizia».
Di tutt’altro parere, invece, il professore emerito di Diritto penale dell’Università di Palermo Giovanni Fiandaca - “E insomma alla fine avevo ragione a sostenere che il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia fosse una boiata pazzesca. Un pasticcio giuridico, non si sarebbe mai dovuto fare”. Così Fiandaca al Foglio. Per uno dei più autorevoli giuristi italiani, “negli ultimi dieci anni, piuttosto che ergersi al ruolo di sociologi, storici, moralizzatori, a Palermo avrebbero potuto dedicarsi a tutt’altri processi, invece di farsi guidare dai loro pregiudizi e andare alla ricerca di un’ipotesi di reato che non esisteva, continua Fiandaca sulle pagine del Foglio. “Questo processo ci dice molto delle derive del circuito mediatico e politico. Perché sono abbastanza sicuro che una parte della stampa continuerà a dire che una trattativa c’è stata e che i giudici della Cassazione non sono adatti a esprimersi in quanto troppo distanti dalla drammaticità dei fatti. Ecco, questo calpestio delle regole del diritto è aberrante”. “Da subito si è capito che ci fosse sproporzione tra l’accertamento di un reato e la volontà di ricostruzione storica. E’ evidente – continua Fiandaca – che i pm sono andati all’avventurosa ricerca di un ipotetico reato perché muovevano da un pregiudizio storico-morale. Che peraltro gli ha impedito di definire bene cosa fosse questa Trattativa, visto che nei diversi filoni d’indagine parlano di ipotesi diverse, slegate da una regia unitaria”. “Per quanto possa essere compiaciuto che le mie critiche fossero giuridicamente fondate, questa vicenda è una fotografia che ci aiuta a riflettere sulle storture della giustizia italiana”, afferma Fiandaca.