La storia della preside dello Zen di Palermo, con tutte le cautele del garantismo, ci insegna una cosa molto semplice: le periferie non hanno bisogno di personaggi che, all’occorrenza, diventano eroi.
Le periferie, soprattutto quelle più difficili, hanno bisogno di presenze sistematiche, di mani che aiutano, di bocche che parlino e di parole che consegnino percorsi di riscatto.
Soprattutto le periferie non hanno bisogno di essere utilizzate come contenitori elettorali per chi offre i sogni più belli, magari irrealizzabili, perché è vero: sognare è bello, farlo in grande ancora di più, ma quando il risveglio è lo stesso la delusione apre crepe e lì si insinua ciò che non è più modificabile.
Non è un lavoro per molti, non è un lavoro fatto a quando capita, è una presenza quotidiana con azioni mirate, che tolga i ragazzi dalla strada, che li avvii alla consapevolezza di sé e che induca alla voglia di raccontare una storia diversa, rispetto a quella di sempre che potrebbe essere raccontata.
Questo episodio non apre una ferita, perché la ferita nei quartieri difficili come lo Zen, e come quelli presenti in ogni angolo della Sicilia, c’è ed è profonda. Semmai provoca disincanto, provoca sfiducia, aumenta l’incertezza di inclusione, conduce a dire che tanto mai nulla cambierà.
Oggi Daniela Lo Verde è innocente, lo sarà fino a sentenza definitiva, ma questa storia ci dice una cosa chiara: non abbiamo bisogno di simboli, non abbiamo bisogno di eroi, abbiamo bisogno di esempi.
Facili, semplici. Di esempi che raccontino di idee e di valori, che guardino in faccia la povertà culturale ed economica e forniscano strumenti per uscire da quel cerchio.
E non è difficile farlo. Basta fare il proprio dovere.
Qui non è solo una storia di merendine rubate o di pc portati a casa, è la storia di chi diceva di impegnarsi per cambiare lo Zen e, invece, ha gettato ombre e ucciso la speranza.