Abbiamo diversi sè, dentro di noi.
Abbiamo un sè ideale, un sè reale, il sé percepito dagli altri, il sé che pensiamo gli altri percepiscano, il sé che si identifica col lavoro che facciamo e i vari sè dei ruoli che abbiamo nella vita.
E già fin qua…aiuto!
Spesso questi sé non sono in relazione tra loro e vivono vite separate, per questo ci ritroviamo a comportarci in maniera diversa a seconda del contesto in cui ci troviamo.
Questo crea confusione in noi e negli altri che ci osservano e ci vivono, perché ci ritroviamo a non sapere più chi siamo davvero.
Parte del risveglio spirituale e personale che viviamo quando siamo in un percorso di crescita e consapevolezza, è vedere che noi siamo molto altro rispetto ai ruoli che abbiamo quotidianamente, che c’è una parte di noi profonda, che accuratamente nascondiamo per adeguarci al mondo circostante, che è la nostra parte autentica. Più è nascosta e più crea sofferenza e dolore psichico e fisico.
Si, fisico anche. Perché le emozioni e i pensieri accadono nel corpo, che è consapevole della nostra parte autentica e la esprime, col suo linguaggio: dolori, malattia, contratture, infortuni.
Ciò che ci impedisce di entrare in contatto con la nostra parte autentica è l’immagine che ci siamo costruiti di noi: il nostro sé ideale, che tipicamente ci vuole bravi e buoni, perché altrimenti ci reputeremmo inaccettabili agli altri e a noi stessi e indegni di amore.
Il bisogno primario dell’uomo è essere amato. Un neonato e anche un bambino, senza le cure dei genitori muore. Quindi se non siamo amati, ci sentiamo morire. È una sensazione primordiale, che ci resta anche da adulti.
Questo sé ideale però è un costrutto sociale, il prodotto del classico buonismo. Ci creiamo delle favolette in cui siamo i protagonisti bravi e buoni, gli eroi della storia e poi dobbiamo portare avanti questo personaggio con noi stessi e con gli altri, per la nostra presunta “pace interiore”, o più che altro per essere “a posto” con la coscienza.
Questa messa in scena, essendo una mascherata, non è sostenibile a lungo termine: le crepe che si creano iniziano a far vedere parti di noi che non vorremmo vedere e non vorremmo soprattutto far vedere agli altri, e uscendo allo scoperto inaspettatamente, creano scompiglio e agiscono diventando ingestibili e fuori controllo.
Il motivo per cui ci fa paura un percorso di lavoro su di noi è proprio questo sè ideale, che cerchiamo di tenere in piedi.
Inizialmente fa paura scoprire quali “mostri” si celano in noi. Quando poi accendiamo la luce e ci voltiamo a guardarli in faccia, quelli che nell’ombra ci sembravano spaventosi mostri, ci rendiamo conto che si sciolgono al sole come fiocchi di neve, perché si nutrivano del buio.
Allora ci riappropriamo di noi stessi, ci riconnettiamo col noi più vero, diventiamo liberi dal dover mostrare maschere agli altri e possiamo costruire finalmente la versione migliore di noi, dove possiamo gestire le cose scomode perché le abbiamo viste, le abbiamo accolte e ci abbiamo fatto amicizia. Allora non sono più un problema.
E, piccolo spoiler, scopriamo che iniziamo ad amare ciò che siamo e ci rendiamo alla fine conto, che gli altri sono più inclini ad amarci quando siamo autentici, che possiamo costruire finalmente relazioni autentiche, nella pace e nella serenità reciproche.
Perché siamo consapevoli che quelle cose scomode sono frutto di ferite che ci hanno insegnato tanto e ci hanno resi persone tridimensionali e profonde.
È il primo passo che spaventa, il resto viene da sé, ma è un viaggio che vale davvero la pena fare. È il più incredibile ed emozionante che abbia mai fatto e che continuo a fare ogni giorno.
Permette di passare da un costante senso di vuoto a una sensazione di pienezza e gioia inesauribili, e cosa c’è di più importante di questo?
Al tuo cambiamento,
ti aspetto dall’altra parte.
Maria Giovanna Trapani