A Marsala il 23 gennaio è morto un ragazzo poco più grande di me. Mentre scrivo non ne conosco il nome né il volto, tantomeno la storia, vicende, gioie e dolori. Ne conosco però la fine, evidentemente è quella che fa notizia, è raccontata su tutte le testate locali, spesso corredata da foto. Dalla foto. Quella che non volevo vedere, che non dovevo vedere ed invece eccola davanti ai miei occhi, vedo il ragazzo penzolare, tenuto per la maglietta dalla nonna e dalla madre, percepisco lo strazio della scena e mi indigno. Mi indigno perché non si può profanare in questa maniera un momento di dolore così grande, profanare un corpo sospeso, trattenuto, che di li a pochi istanti sarebbe stato protagonista dell’ultimo volo, anzi dello schianto, quello che dalquarto piano lo ha deposto inerte sull’asfalto. Eppure quella foto gira, viene condivisa, colleziona click, raccoglie like e sdegno.
Jacques Rivette, stroncando sui Cahiers du Cinema il film “Kapò” di Gillo Pontecorvo per la pornografia del dolore e della morte esibiti scrisse “Ci sono cose che non devono essere affrontate che nel timore e nel brivido; la morte è una di quelle, senza dubbio; e come, nel momento di filmare una cosa così misteriosa, non sentirsi un impostore? Andrebbe meglio in tutti i casi porsi la questione e includere questa domanda, in qualche modo, in ciò che si filma: ma è proprio del dubbio che Pontecorvo e i suoi simili sono più sprovvisti.”
Ecco, ci sono cose che non devono essere affrontate che nel dolore e nel brivido, dovremmo impararla a memoria questa frase, scriverla all’ingresso di ogni redazione, metterla in evidenza su tutti i social che utilizziamo, di cui abusiamo, luoghi questi, fisici, cartacei, digitali in cui giorno dopo giorno viene svuotata di senso la parola PUDORE, fino ad essere del tutto rimossa, dimenticata, cancellata.
Deontologia professionale, questa sconosciuta, che va a farsi fottere – perdonatemi e passatemi il termine – perché il gusto per la pornografia ha preso il sopravvento. Ci piacciano le cose volgari, come invadere un dolore che è privato – e tale dovrebbe rimanere- e che dunque non ci appartiene. Basterebbe un nastro nero in segno di lutto perché la morte di un ragazzo non può che lasciare sgomenti, sarebbe il caso di farsi domande sul mistero della fine e non dare risposte, sicuramente non immagini, non queste immagini.
Parlavamo di pudore, il secondo grande assente insieme alla deontologia professionale, della dilagante assenza di pudore che non fa sconti a nessuno e sono i giovani spesso a farne le spese. Il 23 a Marsala il ragazzo-senza-nome di cui ci importa solo la fine, da una settimana a Castelvetrano Lorenza Alagna, figlia di Matteo Messina Denaro tirata all’interno di un calderone in cui non dovrebbe stare per il semplice fatto di non avere nessuna colpa, e invece anche lei subito nel tritacarne mediatico che di un racconto di cronaca ne fa gossip, che della cattura del superlatitante ne fa telenovela e allora avanti con i dettagli (in)utili, avanti a scavare nella sfera intima, quella che include viagra e profilattici ma anche liste della spesa, il tritato di secondo taglio ed il Dixan per pulire il covo – ma a noi che importa? Eppure clicchiamo, leggiamo, condividiamo e lo sanno bene i direttori delle testate.
In questo show mediatico impudico ecco apparire anche una supplente –“invitata al silenzio” dalla ragazza per bocca del suo legale – che parla, parla e ancora parla, forte della libertà di parola e opinione, la stessa che ho io in questo momento. E racconta la sua testimonianza ovunque, in tv, sui giornali, in radio. La prof. (supplente per un solo mese) e il suo racconto non gradito, non richiesto pare. Che nulla aggiunge alla storia e non fa altro che continuare ad esporre una ragazza che bisognerebbe invece proteggere. Ma i riflettori pare piacciano tanto, troppo, servono a raccontare quanto ci si spende in classe sulla legalità – come se non fosse del tutto normale, corretto, doveroso – quanto ci si spende sul territorio, servono a raccontare “successi” personali e ad abusare della parola “intellettuale”. Che poi cosa vuol dire essere intellettuale? No, non basta una laurea, né essere formatori. Né tantomeno un festival che ci rende semplici operatori culturali. Semplici operatori culturali. Operatori culturali. Operatori culturali. Me lo ripeto più volte anch’io, occorrerebbe farlo tutti, serve a rimanere modesti e non farsi travolgere dall’ego. Da operatori culturali (ma lo stesso vale per formatori, insegnanti e tutti gli altri) abbiamo un compito, prendere un faro e tentare, provare a illuminare le nostre comunità non puntarci l’occhio di bue addosso rischiando di fare danno. Serve pudore.
Maggiore pudore tra i giornalisti e anche tra gli insegnanti. Tra chi diffonde notizie e chi dovrebbe occuparsi di Cultura. Fortuna però che in questa terra ci sono anche – e sono la maggior parte, silenziosa e operativa – giornalisti, educatori, formatori esemplari che andrebbero raccontati. E state certi, non saranno loro a raccontarsi, loro continueranno a fare, a svolgere bene la loro missione giorno dopo giorno col giusto pudore che da sempre li contraddistingue.
Filippo Triolo