Biagio Conte (1953-2023). Detto Fratel Biagio, pur non essendo un frate. Fondatore della Missione Speranza e Carità a Palermo. Figlio di un imprenditore edile.
«È nel 1990 che Biagio lascia la famiglia e decide di vivere come un eremita nelle montagne dell’entroterra siciliano in compagnia di un cane che chiama Libertà. La prima volta che si sente parlare di lui è a Chi l’ha visto?, dove lui risponde in diretta: “Sto bene, sono in cammino”. Torna a Palermo, pensa di andare in Africa a fare il missionario, in breve capisce che il missionario deve farlo nella sua città, dove la sbornia del benessere degli anni Ottanta sta lasciando il passo alla stagione delle stragi di Capaci e via D’Amelio, e dove la polvere di stelle si sta trasformando nel fango delle periferie, delle povertà, della disgregazione sociale. In breve Biagio si ritrova sotto i portici della stazione centrale di Palermo piena di clochard, ad assistere e distribuire minestra, d’appoggio un camper scalcinato. Per questo, in memoria di quell’inizio, ad accogliere la sua salma sarà una bara fatta di traversine dei binari della ferrovia. La svolta nel 1993, quando si piazza con la sua branda davanti all’ex disinfettatoio comunale di via Archirafi iniziando un digiuno che durerà tredici giorni. Non è un parrino, cioè un sacerdote, non è un ricco benefattore, non è un capopopolo. Sfugge a ogni categoria conosciuta. Eccentrico, stravagante, sopra le righe, gli dicono i benevoli. Esaltato, mitomane, pensano altri. “Beveva solo acqua – ricorda don Pino Vitrano, il prete suo alter ego – non una briciola di cibo, se non la comunione che gli portavo io la sera. Aveva scritto a tutte le istituzioni, nessuno rispondeva. Mi diceva: dei poveri non gliene frega niente a nessuno, non servono. Al tredicesimo giorno di digiuno venne il segretario del prefetto, Giorgio Musio. Disse: entrate, occupate la struttura pacificamente. Non c’erano acqua né luce né servizi igienici, non avevamo mille lire in tasca”. Ma la città sta cambiando: un anno prima sono saltati in aria i giudici Falcone e Borsellino, da lì a qualche giorno – per l’anniversario del 23 maggio – Palermo tutta scenderà in strada tenendosi per mano e sventolando lenzuoli alle finestre. Pochi mesi dopo, il 15 settembre del 1993, sarebbe stato ucciso don Puglisi, oggi beato. Si erano incontrati Biagio e don Pino, quando entrambi nel 1993 erano andati a Palazzo delle Aquile a chiedere aiuto, l’uno per la nascente missione, l’altro per Brancaccio. Si erano abbracciati, senza sapere quasi niente l’uno dell’altro. Qualche mese dopo, morto don Puglisi, fu lui a piantare una croce di legno su un campetto sterrato del quartiere dove il sacerdote era stato ucciso. Oggi le missioni sono diventate sette, con quasi ottocento ospiti. Insieme, poveri, senzatetto, migranti, alcolisti, ma anche gente "normale" che senza lavoro e famiglia si è ritrovata sulla strada. “Non perdete la speranza”, diceva loro fratel Biagio» così il quotidiano La Stampa ricostruisce la sua via.
Stroncato da un cancro al colon. «Non perdete la speranza» è stata l’ultima frase che ha pronunciato prima di morire. Aveva 59 anni. Su tutti gli edifici pubblici di Palermo, le bandiere sventolano a mezz’asta. I funerali saranno celebrati mercoledì nella Cattedrale della città.
I pellegrini che hanno visitato la sua camera mortuaria dicono tutti: «Era un santo».
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