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30/10/2022 06:00:00

Ci vuole una grammatica di vita per considerare l'altro uno di noi 

 Osservare quanto accade da qualche giorno, tra la fiducia (scontata) dei due rami del Parlamento al nuovo governo e il modo di porsi dei nuovi ministri su tematiche quali l’accoglienza, l’ordine pubblico e altro.

Bizzarie linguistiche a parte, come ho già scritto, in merito ad alcune denominazioni di certi ministeri, quello che mi lascia basito nello sbandamento dell’opposizione - in certe dichiarazioni - è stato il tono su argomenti quali i vestiti, i colori dell’outfit, le gonne e i pantaloni del giuramento, e l’acrimonia verso la parola “merito”, quando l’imperativo del dibattito dovrebbe andare sull’inflazione che vola al 12%, sulle forze dell’ordine che entrano nella Città universitaria de La Sapienza (non accadeva credo dagli anni ’70, ma lì eravamo nel pieno degli anni di piombo, altre dinamiche), sulle esternazioni del Ministro degli Interni su ONG sbarchi e accoglienza.

C’è stato un festival qui in città qualche tempo addietro che approfondì il tema dei confini (con Giuliano Battiston e Emanuele Giordana ), poi venne un sociologo - il professor Stefano Allievi - con dati alla mano ci ha dimostrato come il saldo tra chi entra e chi esce in Italia sia drammaticamente negativo, solo dati numeri e con la natalità zero che abbiamo da anni forse dovremmo porci qualche domanda sull’immediato domani.

Credo nella democrazia e nei suoi processi di rappresentanza, ma oggi l’attuale esecutivo deve fare uno sforzo e andare oltre alle dichiarazioni su ciò che è stato il ventennio fascista e le sue leggi razziali ignobili: oggi sono governo, sono alla guida di un paese e quella autorevolezza che Mario Draghi ha lasciato come segno potente nell’ultimo Consiglio Europeo non può essere dissipata in poche settimane. Non credo si senta la necessità di una nuova grammatica del dire e francamente stanco di sentire da anni gli stessi slogan sul chiudere i porti o peggio certe assurdità su cosa vorrebbero che avvenisse in mare.

La legge del mare, impone altro, non la demagogia populista. Si deve fugare la grande menzogna che viviamo quotidianamente, dove raccontano che da una parte c’è il bene e da una parte il male; dove quotidianamente raccontano che dobbiamo avere dei nemici che sono quelli che sono diversi da noi ( che poi sono tutti essere umani indipendentemente da ciò in cui credono pensano agiscono, esattamente come noi).

Da sempre, si cerca culturalmente di creare clima da contrapposizione: hai paura se hai paura, e cerchi qualcuno che comandi automaticamente (quasi che ti dia la rotta), così facendo alimentando un potere distorto. Franco La Cecla in un suo libro poneva l’attenzione sulla differenza che la lingua italiana non aiuta a cogliere tra confine e frontiera: il primo indica un limite da non attraversare, mentre la seconda a mo’ non di linea ma di fascia di territorio dove due diversità si fanno fronte, e si incontrano. Il confine è rigido, la frontiera è fluttuante e in quel fluire c’è molto.

“Le frontiere sono il faccia a faccia tra due compagini, due culture, due paesi. Le frontiere dovrebbero essere il luogo dove il confronto sostituisce lo scontro, dove la relazione può essere appagata nella indifferenza della terra di nessuno o nella differenza delle demarcazioni oltre le quali si trova l’altro, lo straniero a noi” (cit.)

 Le parole restano sempre importanti e fondamentali, e certe prove muscolari - già dopo i primi giorni - in alcune risposte date nei luoghi della Democrazia partecipata, fanno precipitare fin dall’inizio le esili speranze di un cambiamento - ad oggi solo a parole - di una certa destra che mi piacerebbe fosse sociale e non come una bitta rugginosa saldamente ancorata nella banchina di un porto, ad altro.

 Il teatro è il luogo della finzione, o della messa in scena di un fatto accaduto; il sipario le luci la musica la scenografia (anche scarna) rendono il tutto verosimile. Il teatro a breve riaprirà in questa Città: se ne ha la necessità come di ossigeno puro; e se la propaganda torna alla carica con stilemi inadatti al 2022 (mi rendo conto che rileggere la storia degli ultimi trent’anni in fatto di accoglienza è cosa seria e ardua, e quindi non si pratica alcuna modifica o magari pensiero per cambiare il corso delle cose) provate a perdere qualche minuto guardando questo brano de L’abisso di Davide Enia. Fu messo in scena nel 2018, da allora repliche in tutta Europa e racconta una storia.

Forse, per tramite della messa in scena, torneremo ad acquisire una grammatica di vita, ad essere sensibili ad essere meno stagni e voler finalmente considerare l’altro uno di noi. Non si combattono le paure continuando ad alzare muri o sfoderando manganelli, dobbiamo imporci tutti un metro di dialogo e confronto, ci aspettano tempi critici e gli slogan non saranno di conforto.

 

giuseppe prode



La Rubrica di Prode | 2024-11-24 06:00:00
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