«Chi vive nel nostro tempo è vittima di nevrosi. Per vivere bene non bisogna essere contemporanei». Ennio Flaiano_Diario degli errori.
Detesto le premesse, ma qui è doverosa: sono contemporaneo e mi sforzo di esserlo. Flaiano lo frequento da sempre quando ho la necessità di rimettere i piedi a terra, poi prendo penna e calamaio per la mia Rubrica con la testa affastellata da una settimana di tutto e di niente.
Il governo varato, i libri che non leggo, il voler mollare tutto per segni evidenti di disaffezione a ciò che è bello (non da parte mia), a ciò che ci parla di cultura nel senso più ampio del termine (agendo ostinatamente in senso contrario) e allora forse contraddico l’intellettuale E.F. perché se vuoi vivere l’oggi non puoi stare altrove.
Su ciò che è irredimibile ci convivo da sempre, forse perché sono un siciliano atipico - di mare aperto e ottimista - la prima ancora ancora ti viene perdonata, ma l’ottimismo quello no: vieni preso a spallate perché necesse est citare con enfasi Tomasi di Lampedusa, il Senatore Piemontese e Tancredi (e mi sorge sempre il dubbio se chi cita il libro lo abbia mai letto o si affidi a frasi ad effetto spuntato).
Molti alle prese col rallentare la china ripida della nostra amata Sicilia, o “almeno di combattere contro la sua l’irredimibilità, a partire dal suo patrimonio culturale. La cultura come leva di sviluppo, di democrazia e di libertà” (etc. etc.) ma poi nel concreto secondo voi ce la possiamo fare? Bah. Scusate l’ottimismo, ogni tanto capita anche a me di cadere in tentazione…
Mi perdo in una conversazione piacevolissima, accaduta qualche giorno addietro, con una professoressa de la Sapienza di Roma - studiosa di biblioteche e della loro centralità nella vita culturale di una comunità - e i ragionamenti ci portano a parlare di Adriano Olivetti, di Gino Martinoli (in principio era Levi, ma poi le leggi razziali…) e della sorella Natalia Ginzburg e mi rendo conto che siamo consustanzialmente cultura noi italiani. Siamo uno scherzo geografico, un braccio che dal centro dell’Europa va nel Mediterraneo, siamo una cultura porosa è nelle cose.
Accoglienza da sempre per storia, non è una cosa degli ultimi venticinque anni e su questo melting pot che abbiamo fondato il nostro essere. Le parole che usiamo, il cibo che mangiamo, l’architettura che ci circonda, come ci vestiamo, tutto è esperanto. La storia della costruzione della Cappella Palatina a Palazzo Reale a Palermo, potrebbe essere un utile esercizio sul senso dei confini e dell’altro.
Poi dopo poche ore dalla nomina del governo già si sentono distinguo tra nazione e patria e forse la storia contemporanea non insegna nulla. Nuovi nomi ai ministeri e mi chiedo quale sia la necessità, forse che fai la differenza con i sostantivi? La cultura democratica, dettata da una Costituzione antifascista, ci ha restituito dalle urne questi risultati e si accettano come tali. Ora la credibilità di una azione deve andare oltre certe boutade linguistiche.
L’altra notte non riuscendo a prendere sonno ascoltavo la radio, e ho appreso dell’atto conclusivo del Consiglio Europeo con l’accoglimento di tutte le proposte sul tema gas e energia del Presidente del Consiglio Mario Draghi: la credibilità italica oggi ha questo punto di partenza, siamo tali in un contesto comunitario. Ed è stato un cammino lungo.
Siamo sempre quel braccio che si allunga nel Mediterraneo perché protagonisti di un percorso comune in Europa, mi ripeto è la nostra cultura è la nostra storia.
Ma forse oggi darò sponda a Flaiano - ogni tanto avere un certo distacco dalle cose aiuta per poterle osservare meglio - “Colui che crede in se stesso vive coi piedi fortemente poggiati sulle nuvole.” E le nuvole hanno sempre un loro fascino, mutevoli sempre.
giuseppe prode