Prima direzione del Pd dopo la sconfitta elettorale. Più di 200 membri si sono riuniti ieri per fare conti con il disastroso risultato del 25 settembre.
L’assemblea, durata circa 10 ore, è stata aperta dal segretario Enrico Letta. La sua relazione, sulle modalità di svolgimento del congresso, è stata approvata da praticamente da tutti: un solo voto contrario, quello di Monica Cirinnà, e due astenuti.
Nel suo discorso il segretario ha confermato di voler convocare un congresso per scegliere il successore entro marzo e rifondare il partito, ha sostenuto che le cause della sconfitta del partito sono da imputare alla legge elettorale, alle divisioni fra i partiti che si sono opposti alla coalizione di destra, al troppo tempo passato dal Pd all’interno di governi eterogenei, alla maggiore capacità della destra di sfruttare paure e timori per la guerra in Ucraina. Dopo l’analisi della sconfitta, decine e decine di interventi parlano di rinnovamento, di donne, di giovani. Tutti sono concordi sul fatto che bisogna ripartire da «una grande opposizione» peccato però le idee su come farla sono poche e confuse. Dopo dieci ora di assemblea solo due cose sono chiare: il Pd non si scioglie e non cambia simbolo.
«Umiltà e politica, entro certi limiti, non vanno d’accordo. Ieri Enrico Letta, dicendo niente, nada, zero, al vertice del suo partito uscito politicamente malconcio dalle elezioni, ha ripetuto il senso morale della cerimonia della campanella a Palazzo Chigi, durante la quale rifiutò un sorriso e perfino uno sguardo protocollare amichevole a Matteo Renzi, che lo scalzava dalla guida del governo […]. Letta è una brava persona, come si dice, e le brave persone meritano stima. Però i torinesi, che nelle sottigliezze ironiche dell’ipocrisia ci sguazzano per formazione e carattere, per quel fondo orgogliosamente calvinista e perfino puritano della loro cultura, di uno così affermano che è “tre volte bravo”, definizione che sa di scherno, molto diminutiva. Intendiamoci bene. Il Pd è un organismo malato, introverso nel senso di inespressivo, abulico. Chi lo ha votato lo ha fatto in genere con grande tristezza, addirittura con un fondo di compassione. Per un segretario uscito scornato dal voto, aggredito con un certo successo dalla sua destra e dalla sua sinistra, e battuto dalla destra disinvolta e arrembante della coalizione avversaria, non era facile esprimere non dico visione, ma nemmeno una carica di idee e di prospettive convincenti […]. Impoverito, come asciugato, dalla propria umiliazione, Letta avrebbe dovuto almeno fingersi ricco, mimare un orizzonte politico anche se nessuno lo scorge tra cielo e mare, improvvisarsi capo nella transizione. L’umiltà è venerata da cristiani, ebrei, islamici, è una qualità religiosa, santifica il quotidiano e rafforza lo spirito perfino quando si combina con una fede fanatica, come nelle abluzioni del commando che perpetrò l’orrore islamista dell’11 settembre, ma non è una dirimente qualità politica, nemmeno come antidoto al suo opposto, l’arroganza, l’orgoglio su cui si fondano gli equivoci nazionalisti e populisti di oggi. Questa ambigua qualità, coltivata dalla sinistra cattolico-democratica recente come un totem, non conduce al bene comune, per non parlare del successo di parte o di partito, conduce al flop» così Giuliano Ferrara sul Foglio.
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