Certo, la mafia è cambiata. Non spara più, non mette le bombe, non uccide più giudici e giornalisti, ma non è che abbia rinunciato ad occuparsi di droga, appalti, scommesse e tante altre cosette da sempre nei suoi interessi.
E’ il caso della gestione delle slot machines e dei centri scommesse, che ci racconta l’inchiesta giudiziaria “Mafia Bet”, che ha come protagonista il campobellese Calogero John Luppino. Le motivazioni della sentenza di primo grado a 18 anni di carcere sono uscite tre settimane fa.
Occuparsi delle “macchinette” non era semplice. Luppino era un punto di riferimento per i baristi e per “proteggerli” avrebbe ingaggiato anche dei malavitosi locali.
Quando qualcuno rubò le slot machines da un noto bar di Mazara del Vallo, per risolvere il problema viene incaricato Dario Messina in persona, recentemente condannato a venticinque anni perché ritenuto dagli inquirenti il nuovo reggente del mandamento mafioso di Mazara.
Messina risarcisce chi aveva subito la perdita e incarica un suo uomo di fiducia di trovare il ladro.
Che lo trova. E siccome questo tizio aveva un camion, gliel’hanno incendiato. Il messaggio è chiaro per tutti: “Le macchinette non si toccano”.
Luppino però, il sostegno mafioso lo riceveva anche da Castelvetrano. Rosario Allegra, uno dei cognati di Matteo Messina Denaro, aveva fatto di tutto per aiutarlo ad avviare le proprie agenzie in città, in modo che poi sostenesse economicamente i mafiosi. Come? Non solo consegnando loro del denaro, ma anche concedendo le agenzie di scommesse ai vari affiliati, spesso senza guadagnarci nulla. “Una scelta che non ha nessuna ragione economico-imprenditoriale – scrivono i giudici – ma solo di sostegno della consorteria e dei suoi membri”.
Ma con l’Allegra, Luppino parlava anche dei giochi di potere per il ruolo di capo del mandamento di Castelvetrano. Il cognato del boss gli aveva infatti confidato di aver rifiutato questo ruolo che i capi più anziani di Cosa nostra gli avevano affidato, preferendo cedere il passo all’altro cognato, Gaspare Como. E va beh, “per poter lavorare era costretto a relazionarsi con la mafia locale”, aveva sottolineato la difesa, “vittima delle pretese di soggetti senza scrupoli”.
E’ risultato invece chiaro, sottolineano i giudici, “come il Luppino non fosse strumento di Cosa Nostra, ma ingranaggio della stessa, aiutando le consorterie locali e ricevendone a sua volta aiuto nell’espansione delle proprie attività imprenditoriali. Il tutto relazionandosi con un ruolo di parità con tutti”.
Non ha retto al processo nemmeno l’ipotesi che il Luppino avrebbe dato delle somme di denaro soltanto perché generoso, prestando migliaia di euro a diverse persone, spesso senza nessuna garanzia e senza mai scrivere nulla. In alcuni casi, si disinteressava pure di recuperare i soldi prestati. Non “atti di pia benevolenza verso i singoli – scrivono ancora i giudici – ma diretti ad ottenere in cambio sostegno criminale per le proprie attività imprenditoriali”.
Egidio Morici