All’alba come sempre apro la mia rassegna stampa sgangherata e con gli occhi della notte leggo una notizia, pulisco alla buona gli occhiali: “è morta Letizia Battaglia”, avevo letto bene.
In rete, sulle radio e tv se ne parla, si parla di una donna si parla di fotografia si parla del suo essere militante si racconta la mafia per tramite di un’arte minore (sempre più svilita purtroppo) e mai come in questo momento di distacco, fondamentale.
Non ho aperto alcun libro suo, ne ho diversi, do fondo alla memoria, sempre viva e sorprendente di questo viaggio meraviglioso che è la vita, e che mi ha regalato la possibilità negli anni di incontrare molte persone.
Arrivai a Palermo a metà anni ‘90 ed entrai dalla porta principale - fotograficamente parlando - conoscendo Enzo Sellerio - poi Nicola Scafidi, Ernesto Bazan, Fabio Sgroi, Tony Gentile, frequentando laboratori di sviluppo e stampa, e incontrare Letizia fu semplice, entrare in sintonia meno (riprenderò dopo l’argomento).
Oggi si osanna la scoperta di Vivian Meir , la baby sitter con la sua rolleiflex che raccontava il quotidiano con semplicità disarmante, e parlando di differenze di genere la fotografia ad onor del vero in questo è sempre stata un passo avanti: Margaret Bourke-White fu una dei primi fotografi ad entrare ad Buchenwald e raccontare l’orrore che molti paventavano, Gerda Taro la compagna di Robert Capa raccontò la guerra civile di Spagna per poi finire sotto i cingoli di un carro armato e l’elenco si potrebbe allungare.
Perché Letizia e questo commosso clamore? Forse, perché in un tempo non troppo lontano in Italia - lei donna - raccontò la prima guerra di mafia non con il teleobiettivo ma andando a pochi centimetri da quegli omicidi che quotidianamente finivano in prima pagina. Era un' Italia diversa, Franca Rame violentata ai primi anni settanta, i movimenti pro aborto il divorzio il femminismo e lei Letizia si liberò di un matrimonio borghese agiato e fece scelte controcorrente, non avendo idea di cosa fosse la fotografia ma capendo che sarebbe stata la sua nuova vita: il giornalismo e la fotografia.
La sua storia poi, Milano e il ritorno a Palermo le porte del giornale L’Ora - accademia autentica di giornalisti e di fotografi - e il quotidiano che dovevi raccontare e qui l’alchimia (?) il destino (?) non saprei ma Letizia, Franco Zecchin, e molti altri ragazzi di allora diedero vita ad una delle pagine fondamentali del giornalismo in assoluto, la mafia non l’aveva fotografata nessuno in quel modo mai e quei servizi fecero il giro del mondo.
Il suo sguardo vivo di sfida, mai domo, i suoi foulard a contenere i capelli ribelli e quelle fotografie che valgono più di un qualunque fondo in prima pagina.
Il dovere di cronaca. Le sue fotografie, utopie tradite.
Letizia è volata via, quando la conobbi non scattò il clic interiore tra noi e poco importa avevamo sensibilità diverse, ma a lei devo un grazie enorme monumentale per quanto fatto. Non ha raccontato solo la mafia, ha raccontato gli ultimi - e mai spostandosi dalla sua città: Palermo come mondo assoluto e imperfetto, sensuale e putrida nelle sue pieghe, dove la guerra di mafia era la punta dell’iceberg di un degrado assoluto e substrato necessario affinché tutto collimasse a che un pezzo di quella società vivesse quelle condizioni.
Ho amato meno, l’elegia la retorica di questi anni recenti sulla musealizzazione dell’opera sua: la fotografia racconta sempre in sottrazione e questa overdose di aneddoti fatta da altri (curatori di mostre, scrittori a vario titolo) a reso a volte fragile Letizia.
Restano i libri, testamento indiscusso di un momento storico orrendo, di una Italia fragile, resta un archivio prezioso a cui credo che le figlie porranno l’attenzione sacra che si deve a tanto lavoro. La mia fotografia: qualche anno addietro a casa sua in sala la luce fortissima del mattino le arriva alle spalle la sua sagoma e l’eterna sigaretta tra le mani e la curiosità solita “che stai facendo?”
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