No, non è un dittatore Vladimir Putin. E' qualcosa di diverso, di nuovo ed antico insieme: un grande dettatore. Un uomo, cioè, capace di imporre al suo popolo anche una lingua, una visione, una sua realtà virtuale e parallela. Quella in cui il Vangelo viene citato per giustificare il massacro di gente innocente, la guerra diventa un' "operazione speciale", si inventano termini come "denazificazione" per legittimare l'invasione di un Paese straniero.
Perchè battono le armi, i missili e le contraerei. Ma batte anche la lingua, con le sue parole di guerra, che costruiscono un lessico alternativo, e sviluppa un racconto, e il racconto passa dalla tv a TikTok e arriva sino a noi, in un grande impasto, nel quale la prima vittima è la lucidità.
E allora, siccome io vivo di parole, a tutto questo delirio rispondo con le parole che conosco, che sono quelle di Sveltana Aleksievic, premio Nobel 2015, scrittrice e giornalista bielorussa e "dissidente". Nel suo libro "La guerra non ha un volto di donna", racconta il suo viaggio, lungo molti mesi, per l’intero territorio dell’Urss e in Afghanistan: è andata alla ricerca di soldati, ufficiali, infermieri, madri, vedove, reduci di guerra.. A loro ha chiesto cosa si prova in guerra, perché la si fa, perché si uccide, cosa spinge un uomo ad accettare tanto orrore. Se ti dicono che devi uccidere, tu uccidi: questa è la guerra.
Ad un certo punto raccoglie questa testimonianza: "Non avevamo idea di come potesse essere il mondo senza la guerra. Il mondo della guerra era il solo che conoscevamo e le persone che la facevano erano le uniche che ci fossero familiari. (...) Nelle narrazioni delle donne non c'è, non c'è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire: la guerra, al femminile, ha i propri colori, odori (...) e anche parole sue, dove non ci sono eroi o strabilianti imprese, ma solo persone reali impegnate nella più disumana delle occupazioni dell'uomo, e a soffrine non sono solo loro, le persone, ma ogni cosa che convive con noi su questa terra, in un'angosca aggravata dall'essere muti".
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Il potere, senza le parole, non serve a nulla. C'è lo spiega già Orwell in 1984. Il potere, alla fine è proprio questo: la possibilità di manipolare le parole, ed è la forza del dittatore - dettatore, che usa la sua forza per agire innanzitutto sulla lingua, la trasforma in un'arma e impone una sua realtà deformata.
"Semplicemente sono una persona normale, che segue i fatti. Perché i grandi errori della nostra vita nascano da una scarsa informazione". Si presentava così Anna Politoskaja, giornalista russa. "Putin è una parete - diceva questa donna minuta e coraggiosissima - . "Domani in questa parete si possono aprire dei buchi". Nel 2006 è stata ritrovata uccisa nell'ascensore del suo palazzo. Era il 7 Ottobre, il giorno del compleanno di Putin. I suoi libri sono l'unico strumento che abbiamo per capire dal di dentro la Russia di Putin, e ha pagato con la vita il suo voler dire la verità, fino in fondo, raccontando di quei giovani mandati in guerra, in Cecenia, come carne da macello, sperduti. Descriveva la realtà che vedeva e che sentiva, raccontava la verità, come dovrebbero fare tutti i giornalisti. Respingere ogni diktat, che poi significa proprio dettato.
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"Perché è sempre la stessa cosa! Quando sparate il primo colpo, non importa quando giusto sembri, non avete idea di chi morirá.
Voi non sapete i figli di CHI urleranno e bruceranno o quanti cuori verranno infranti! Quanti vite verranno spezzate ... Quanto sangue verrà versato finché tutti non faranno quello che avrebbero dovuto fare fin dall'inizio! E cioè SEDERSI E PARLARE!"
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