di Katia Regina e Gabriele Civello - Cosa non ha funzionato nei referendum bocciati dalla Consulta? Chi ha sbagliato cosa? Possibile che fior di giuristi non siano riusciti a formulare il quesito in maniera inattaccabile?
La prima reazione dei firmatari del referendum non poteva che essere di rabbia nei confronti del presidente della Consulta, Giuliano Amato, a lui è toccato il compito di comunicare l'esito dopo due giorni di confronto con i quindici giudici che compongono la Consulta, una decisione non unanime, a quanto pare. Prendersela con Giuliano Amato è fin troppo facile, la sua aria da primo della classe agevola molto, ma è solo un modo semplice per sbagliare mira. I veri responsabili di questo fallimento sono i parlamentari tutti, da destra a sinistra, a loro spetta il compito di fare le leggi, discuterle e trovare un'intesa. Anziché applaudire il presidente della Repubblica fino a scorticarsi le mani, avrebbero dovuto chinare la testa in segno di vergogna per diciotto volte, tante le volte che è stata pronunciata la parola dignità.
Per comprendere meglio cosa è accaduto ho chiesto a un Dottore di ricerca in Giurisprudenza, nonché docente di diritto penale, l' avvocato Gabriele Civello, di spiegarmi, in modo semplice, quale sia stato il corto circuito in questa vicenda. Le sue spiegazioni mi sono apparse ragionevoli se non convincenti, ecco perché ho deciso di ospitarle nella mia rubrica senza provare a sintetizzare argomenti tanto complessi. Facciamo dunque lo sforzo di comprendere senza alzare barricate ideologiche, nel frattempo però segnalo il Numero bianco dell'associazione Luca Coscioni, perché mentre noi blateriamo centinaia di persone invocano il diritto di morire con dignità: 0699313409
Il quesito referendario cosiddetto “sulla eutanasia legale” proponeva di abrogare, all’interno dell’art. 579 c.p. (che regola il reato di “omicidio del consenziente”), le frasi qui barrate: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”.
Molti italiani in questi giorni si sono indignati, sostenendo che la Consulta avrebbe adottato una decisione arbitraria e “politica”, manifestando un pregiudizio “di parte” contro l’eutanasia e non facendosi, dunque, carico delle ragioni dei più deboli e dei sofferenti; altri si sono egualmente indignati, sostenendo che i promotori del referendum avrebbero commesso un clamoroso errore tecnico, addirittura formulando un quesito inammissibile.
Probabilmente, entrambe le forme di malcontento, pur essendo politicamente ed eticamente comprensibili, non colgono nel segno dal punto di vista del diritto vigente.
Non sembra, infatti, che la Corte Costituzionale avesse un ulteriore margine di manovra per decidere diversamente: l’eventuale accoglimento del referendum non si sarebbe limitato a “legalizzare” le forme di eutanasia alle quali miravano gli stessi promotori, cioè l’interruzione della vita di chi, a causa di malattie inguaribili, sia sottoposto a sofferenze intollerabili alle quali la “buona morte” intenderebbe porre fine; l’accoglimento del referendum, invece, avrebbe legittimato ogni e qualsiasi forma di omicidio del consenziente (purché maggiorenne e genericamente capace), a prescindere da malattie, da sofferenze e da situazioni eccezionali; ma soprattutto, avrebbe lasciato una voragine normativa sul come prestare il consenso alla morte e sul come eseguirla.
Ma d’altra parte, non colpevolizzerei nemmeno i promotori del referendum, quasi che essi potessero “formulare meglio” il relativo quesito: infatti, un qualsiasi altro quesito referendario sulla eutanasia, quand’anche redatto con maggiore acribìa e attenzione, sarebbe stato probabilmente sempre e comunque dichiarato inammissibile, per un motivo molto semplice che vorrei spiegare in poche parole.
Nel nostro ordinamento, così come in ogni altro sistema civile, l’eventuale eutanasia potrebbe essere introdotta solamente con una legge organica dello Stato, la quale dovrebbe stabilire in modo assolutamente dettagliato e rigoroso quantomeno quattro aspetti fondamentali: 1) in quali specifiche situazioni si abbia diritto a morire (attenzione: non un diritto a suicidarsi, che è tutt’altra materia già oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019 sul “caso Cappato”, riguardante l’aiuto al suicidio ex art. 580 c.p., ma un diritto a pretendere che qualcuno ci uccida impunemente e per sua mano); 2) quali siano i soggetti legittimati ad eseguire l’eutanasia e in quali contesti sanitari; 3) con quali precise procedure si possa prestare il consenso a morire, in modo che siano garantite la libertà e la consapevolezza di un tale consenso; 4) con quali precise procedure debba essere causata la morte del consenziente.
Come è agevole capire, in assenza di una legge organica sulla materia, mai alcun referendum abrogativo potrebbe, con un semplice colpo di penna, tagliando qua e là alcune parole del codice penale, dare all’eutanasia quella disciplina e quella regolamentazione giuridiche puntuali delle quali essa, in ipotesi, necessita.
Dobbiamo allora renderci conto che, se il referendum fosse stato dichiarato ammissibile e, poi, il popolo lo avesse approvato, chiunque (anche non un medico) avrebbe potuto uccidere chiunque (anche non malato, non terminale, non sofferente, purché maggiorenne e capace), con un qualunque mezzo (anche sparando con una pistola o tagliando le vene), in qualunque luogo (a casa, in ospedale, sotto un ponte) e a fronte di un qualunque consenso (anche proferito a voce, senza testimoni e senza garanzie legali).
Anche in questo caso, è agevole comprendere che tale scenario normativo sarebbe stato totalmente contrario non solo ai principi della Costituzione ma anche solo al normale senso di umanità.
Alcuni hanno sostenuto che la Corte costituzionale avrebbe dovuto forzare la materia, “tirando la corda” e ammettendo il quesito referendario, al solo scopo – tutto politico – di risvegliare le coscienze e di indurre il legislatore a intervenire con urgenza nella materia e a rimediare al problema; ma si tratta di una opzione che il diritto costituzionale non sembra ammettere: non può, infatti, la Consulta lasciare spazio a leggi o referenda il cui esito sia contrario ai principi minimi dell’ordinamento costituzionale, nell’auspicio – totalmente aleatorio – che il legislatore intervenga poi a sanare il vulnus venutosi a creare proprio a causa di una sentenza della stessa Corte.
Il motivo per cui, nel nostro diritto costituzionale, il bene della vita è “indisponibile” può essere spiegato con una dimostrazione giuridica “per assurdo”: se anche la vita fosse un bene disponibile – persino anche al di fuori di eccezionali situazioni di malattia inguaribile e di sofferenza intollerabile – a questo punto tutti i beni umani diventerebbero disponibili, anche la libertà, la dignità e l’incolumità fisica. Diventerebbe così penalmente irrilevante schiavizzare una donna o un uomo consenziente per fini sessuali, asportare organi a un soggetto consenziente, sottoporre lavoratori consenzienti a trattamenti disumani o a mansioni insicure, e altre amene condotte che non costituiscono affatto “casi di scuola”: infatti, soprattutto in un’epoca in cui i bisogni economici e la sofferenza morale inducono spesso alcune persone (pur maggiorenni e non inferme di mente) a compiere decisioni autolesionistiche a causa della propria indigenza o di sub-culture inaccettabili, gli scenari appena suggeriti non appaiono affatto irrealistici e, anzi, molti di essi si sono già oggi avverati. A dimostrazione ulteriore che, se l’eutanasia dovesse essere introdotta, essa dovrebbe essere senz’altro limitata e disciplinata nei suoi presupposti e nelle sue modalità esecutive.
C’è, infine, un ultimo aspetto degno di nota: l’ammissione del referendum avrebbe potuto creare ulteriori effetti paradossali e di incertezza giuridica, come ben segnalato anche dalle associazioni intervenute nel procedimento innanzi alla Consulta. Infatti, forse pochi sanno che l’art. 579 c.p., che punisce l’omicidio del consenziente, non è tecnicamente una norma “di rigore” bensì una norma… “di favore”. Se non esistesse l’art. 579 c.p., l’omicidio del consenziente verrebbe punito dall’art. 575 c.p. (omicidio volontario) con la reclusione da 21 a 24 anni, e con l’ergastolo dagli artt. 576 e 577 c.p. (ad esempio quando la vittima è il genitore o il figlio). Per questo motivo, il legislatore del 1930 previde espressamente una speciale ipotesi di omicidio volontario, compiuta con il consenso dell’ucciso, destinata ai cosiddetti casi di “omicidio per pietà” e punita in modo più lieve, cioè con la reclusione da 6 a 15 anni. E allora forse pochi sanno che, abrogando in tutto o in parte l’art. 579 c.p., si finirebbe non già per depenalizzare l’omicidio del consenziente quanto… per punirlo con le stesse pene previste dagli artt. 575, 576 e 577 per le normali forme di omicidio volontario. Ecco cosa può accadere quando si impiega lo strumento del referendum abrogativo al di fuori del suo perimetro costituzionale.