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19/02/2022 06:00:00

Castelvetrano. Mafia, ecco chi sono i condannati del processo “Anno zero”

 Tra le condanne col rito ordinario e quelle in abbreviato, il blitz “Anno Zero” ha prodotto più di 300 anni di carcere per una ventina di imputati: 143 anni in abbreviato e 166 con l’ordinario.Tra le condanne dell’abbreviato, la pena più dura era toccata al settantunenne  boss campobellese Vincenzo La Cascia (19 anni e 4 mesi), mentre tra coloro che avevano scelto il rito ordinario, la pena più elevata è stata di 25 anni, inflitta qualche giorno fa a Gaspare Como e Dario Messina.

 

Ecco chi sono i condannati del processo “Anno Zero”.

 

Gaspare Como

È uno dei cognati di Matteo Messina Denaro, per averne sposato la sorella Bice. Condannato a 25 anni di carcere, per essere stato “promotore e organizzatore del mandamento mafioso di Castelvetrano”, avrebbe presieduto “a tutte le relative attività e affari illeciti, assicurando il collegamento con altre articolazioni territoriali di Cosa nostra”. E soprattutto avrebbe fatto fronte a tutte le necessità del cognato latitante, “garantendogli il costante collegamento con il territorio e con le altre articolazioni mafiose della provincia di Trapani e della Sicilia occidentale”.

Il suo ruolo di primo piano nella famiglia mafiosa dei Messina Denaro era stato già intuito nell’operazione Eden 2 del novembre 2014, dove a lagnarsi del comportamento spregiudicato della microcriminalità castelvetranese era addirittura Rosario Cacioppo, poi arrestato per mafia e condannato a 10 anni e 10 mesi. Intercettato, Cacioppo parlava proprio di Gaspare Como che, dopo aver ricevuto diverse lamentele a causa dei “danni” fatti da piccoli pregiudicati, avrebbe detto: “Castelvetrano è diventato un paese che sono tutti ‘alla rotta’ (allo sbando, ndr) […] sparano pure ai cartelli… vanno facendo un mare di danno […] Finitela perché praticamente succede una guerra! Perché ci sono lamentele… per dire picciotti, date una sistemata a questi… oh…”.

Inoltre, in questo processo, in concorso con Antonino Triolo (già condannato in abbreviato), avrebbe costretto il concessionario Andrea Moceri a pagare 3 mila euro. Mentre, insieme ad altri tre, avrebbero distrutto il muro della casa di un altro imprenditore, con la finalità di agevolare

l’attività dell’associazione mafiosa.

 

Dario Messina

Anch’egli condannato a  25 anni, sarebbe stato a capo della famiglia mafiosa di Mazara del Vallo, occupandosi del coordinamento delle attività illecite di Cosa nostra e della distribuzione dei relativi proventi, dei rapporti con altre famiglie mafiose e del sostentamento dei familiari dei detenuti affiliati.

Dal 41 bis del carcere romano di Rebibbia, aveva dichiarato: “Ma quale controllo del territorio? Io ho subito due furti. Uno di gasolio e poi anche l’auto, che mi è stata restituita dalla polizia.

Ha subito un sequestro da 140 mila euro, dopo approfonditi accertamenti patrimoniali condotti dal Nucleo di Polizia Economica Finanziaria di Trapani. Nel triennio 2015-2018 avrebbe avuto un ruolo di primo piano nel mandamento di Mazara del Vallo.

 

Vittorio Signorello

È stato condannato a 21 anni. Impiegato del ministero della Difesa, in servizio presso la base militare del 37° Stormo di Birgi, condannato a 21 anni di carcere, è stato protagonista di una intercettazione shock in cui “giustifica” l'omicidio del piccolo Santino di Matteo:    “… Allora ha sciolto a quello nell’acido… Non ha fatto bene? Ha fatto bene…Se la stirpe è quella ... Suo padre perché ha cantato?

In un’altra, veniva ascoltato mentre spiegava all’imprenditore Giovanni Ligambi i motivi del rifiuto a partecipare ad un pranzo, perché al tavolo c’era anche il senatore D'Alì, da anni sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa, e immaginava di essere sotto osservazione: “…non so niente... e non voglio sapere niente – aveva detto mentre era intercettato - ... qualche giorno... qualche giorno da me vengono...”. Non aveva torto.

 

Signorello farebbe parte della famiglia mafiosa di Castelvetrano, per avere collaborato con Gaspare Como nelle sue attività illecite, facendo da messaggero tra lo stesso Como e Vincenzo La Cascia, organizzando incontri riservati, fornendo la disponibilità dei propri mezzi di trasporto e della propria residenza estiva, prendendo personalmente parte ad incontri e riunioni con loro e con altri esponenti di Cosa nostra. Ma anche intervenendo nella gestione delle attività criminose, minacciando in concreto ritorsioni e danneggiamenti, recuperando e trasportando ingenti somme di denaro.

Poi c’erano anche le armi da tenere a disposizione dell’organizzazione mafiosa: ne curava il reperimento, l’occultamento e l’alterazione. Intercettato con Como, precisava che “dopo

un evento delittuoso, oltre a togliersi i vestiti indossati – riportano gli inquirenti - è assolutamente opportuno attuare piccoli accorgimenti, effettuando modifiche ai pezzi dell’arma, quali il cane e le rigature della canna, così da falsare il risultato derivante da una eventuale perizia balistica”.

 

E infine il rispetto per Totò Riina. Dopo che un tizio di  sua conoscenza aveva avuto l’ardire di scrivere un commento negativo su Facebook contro il capo dei capi nel giorno della sua morte, aveva commentato così con lo stesso Como:

Quel pezzo di merda l’ho cancellato… ha fatto un commento... minchia l’ho cancellato… minchia di corsa… pezzo di merda… ce ne vorrebbero altri quattro, cinque come lui (come Riina, ndr)”.

 

Bruno Giacalone

Ha ricevuto una condanna di 18 anni. “Non posso essere un mafioso perché sono un anarchico – aveva dichiarato in videoconferenza dal carcere dove era rinchiuso, avendo chiesto di rendere dichiarazioni spontanee - E proprio perché per mia natura anarchico, non faccio neppure parte di questo movimento”.

Il giudice non gli ha creduto, condannandolo come appartenente alla famiglia mafiosa di Mazara del Vallo, per aver mantenuto, attraverso il continuo scambio di comunicazioni, un costante collegamento con gli altri associati, partecipando agli incontri per trattare questioni di interesse dell’associazione mafiosa e occupandosi del sostentamento dei detenuti.

 

Vito Bono

Condannato a 17 anni di carcere, come appartenente alla famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, per aver svolto anche funzioni di alter ego del vertice Vincenzo La Cascia, anch’egli partecipando ad incontri e riunioni riservate con altri mafiosi.

In video-conferenza dal carcere napoletano di Poggioreale il 61enne campobellese aveva detto in lacrime: “Sto male, da giorni ho la febbre, ho i linfonodi ingrossati, ma non ho ricevuto cure mediche adeguate. Non voglio morire in carcere”. Aveva contratto il Covid ed era guarito, in seguito però le sue condizioni di salute si sarebbero nuovamente aggravate.

Avrebbe inoltre partecipato ad attribuire una fittizia titolarità d’impresa, per eludere eventuali sequestri e con l’aggravante di aver agevolato Cosa nostra.

 

Anche per Giovanni Mattarella la condanna è a 17 anni

Genero del boss Vito Gondola, avrebbe fatto parte della famiglia mafiosa di Mazara del Vallo, consentendo il collegamento tra lo stesso Gondola  e gli associati delle altre famiglie mafiose, tra cui quella di Castelvetrano. Avrebbe garantito la continuità di indirizzo nella gestione degli affari illeciti e la risoluzione dei contrasti anche di natura economica tra le famiglie. E dato che Gondola era agli arresti domiciliari, lo teneva informato di tutto ciò che accadeva intorno, veicolando nello stesso tempo le sue decisioni su chi avrebbe dovuto rappresentare la famiglia mafiosa di Mazara.  

 

Carlo Cattaneo

Riceve una condanna a 16 anni.

La sua espansione nella Sicilia occidentale, delle agenzie di scommesse affiliate a siti di gioco on line (illeciti) sarebbe stata strettamente correlata alla sua interazione con Cosa nostra.

I rapporti d’affari sarebbero stati avviati, fra il 2012 e il 2013, da Francesco Guttadauro (già condannato in via definitiva per associazione mafiosa, nonché nipote prediletto di Matteo Messina Denaro) e sarebbero continuati, anche dopo l’arresto di quest’ultimo (avvenuto nel dicembre 2013), tramite Rosario Allegra, morto recentemente, che a fronte di protezione riscuoteva da Cattaneo periodiche somme di denaro, utilizzate sia per il sostentamento dei familiari del latitante, sia per quello dell’organizzazione mafiosa.

Cattaneo al quale sono già stati sequestrati più di 500 mila euro di beni, tra società, appartamenti, terreni, e conti bancari è l’ideatore di “17 Nero”. Si tratta di un sistema illegale con cui, “avvalendosi del sostegno della famiglia Messina Denaro – si legge nelle carte degli inquirenti - è riuscito a realizzare nella Sicilia occidentale un vasto network di centri di commercializzazione di siti di gioco on line in cui ha parallelamente diffuso e gestito propri siti illegali, che gli hanno garantito introiti settimanali di ingenti somme di denaro”. Parte di questi introiti, secondo gli investigatori, erano destinati alla mafia di Castelvetrano e di tutta la provincia di Trapani.

 

Giuseppe Accardo

Esponente della famiglia mafiosa di Partanna, assicurava  il collegamento con altre articolazioni territoriali di Cosa nostra. E’ stato condannato a 7 anni di carcere.

 

A “Lillo” Giambalvo sono toccati 4 anni e 4 mila euro di multa

Fedele emissario (e nipote) del boss campobellesse Vincenzo La Cascia, era incaricato di intrattenere i rapporti con la società che si era aggiudicata i lavori al comune di Castelvetrano per il “completamento del recupero urbano e culturale del sistema delle piazze con creazione di un Urban Center ed impianto di illuminazione a basso inquinamento luminoso dotato di dispositivi di auto produzione energetica da fonti rinnovabili”. Insieme al La Cascia volevano costringere il legale della società alla cosiddetta “messa a posto”,  evocando la propria appartenenza a Cosa nostra.

Il legale però aveva contrapposto il suo no e la “messa a posto” non era avvenuta.

Giambalvo non è nuovo alle cronache. Era stato intercettato mentre diceva di essere “pronto a rischiare trent'anni di galera” per nascondere Messina Denaro, ma anche di essere disposto ad uccidere il figlio di Lorenzo Cimarosa, il “dichiarante” cugino acquisito del superlatitante: “Si fussi io Matteo, ci ammazzassi un figghiu (gli ammazzerei un figlio, ndr)”.

 

Carlo Lanzetta, Nicola Scaminaci, Giuseppe Tommaso Crispino e Maria Letizia Asaro, sono invece stati condannati a 4 anni ciascuno per intestazione fittizia.

Lanzetta e Crispino per la titolarità delle quote sociali della “Distribuzione Abbigliamento” s.r.l.s.;

Maria Letizia Asaro per l’omonima impresa di onoranze funebri;

Nicola Scaminaci per la titolarità e disponibilità dell’impresa individuale “Valery Beach di Scaminaci Nicola”.

 

Egidio Morici



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