Dalla produzione alla distribuzione, dalla raccolta alle nostre tavole. In quanti si chiedono la reale provenienza dei prodotti acquistati e, in seguito, mangiati? La dignità e i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici sono sempre rispettati? Se ne è parlato con Yvan Sagnet e Diletta Bellotti
Parola d’ordine: utopia. Dal 2 al 5 settembre 2021, presso il Castello Normanno Svevo di Sannicandro di Bari, si è tenuta la nuova edizione del Mundi Festival, un manifesto che ha unito musica e arte, cultura e saperi. Un approfondimento del rapporto tra l’uomo e l’ambiente, un’apertura alle nuove possibilità di innovazione e sostenibilità. Tutto, finalizzato alla sensibilizzazione al rispetto, alla consapevolezza di ciò che si è nel mondo, alla denuncia delle ingiustizie e alla lotta alle discriminazioni. E, se dopo l’intervista di Diletta Bellotti a Yvan Sagnet si pensa questi valori non appartengano anche a se stessi, è un problema del singolo.
“Lotta alle agromafie: a che punto siamo?” è il tema discusso il 3 settembre: i due attivisti, infatti, hanno spiegato al pubblico come le mafie si insedino nel settore agrario, come lo sfruttamento dei braccianti sia, di fatto, il fenomeno più vicino alla vecchia schiavitù, e il conseguente rischio di normalizzazione e regolarizzazione di quest’ultimo nell’immaginario collettivo.
“Da noi c’è la povertà ma c’è la dignità”, ha dichiarato Yvan Sagnet. “A Nardò ho scoperto nemmeno il Terzo Mondo, quel posto era assurdo. E, poi, il peggio arriva dopo, scoprendo il caporalato”, ha continuato. Camerunense, di Douala, Sagnet si avvicina al mondo e alla cultura italiana quando è un bambino, è il 1990 e ci sono i mondiali di calcio. Gianna Nannini ed Edoardo Bennato cantano Un’estate italiana, esportando quelle notti magiche. E Yvan Sagnet è piccolo, le vive e le canta. Poi, la passione per Enrico Mattei e la scoperta di Nelson Mandela. “È stato grazie a esempi del genere che ho capito quanto servano a poco le idee senza la forza di un gesto che le trasformi. Ma questo sarebbe successo anni dopo: al liceo ero solo una spugna che incamerava più informazioni possibili. Ero affamato di tutto, e affascinato, in eguale misura, sia dalle rivoluzioni degli altri che dalle regole ferree della fisica e della matematica”, racconta nel suo libro, “Ama il tuo sogno. Vita e rivolta nella terra dell’oro rosso”. E Yvan Sagnet è un rivoluzionario vero, che, amorevolmente, ha costruito, inseguito e allargato il suo sogno di inclusione, uguaglianza, civiltà, dignità e giustizia sociale. “Quanto alla scelta del Politecnico di Torino, quella la devo a Roberto Baggio. Partire per l’Italia è sempre stato il mio sogno di bambino. Non avevo dubbi che fosse il paese migliore del mondo, non fosse altro perché era il paese di Roberto Baggio, uno dei miei calciatori preferiti di sempre”. Dieci anni fa, infatti, parte per studiare al Politecnico di Torino, dove si laurea diventando ingegnere. E Baggio dovremmo ringraziarlo un po’ tutti perché un Paese con Yvan Sagnet è sicuramente un Paese di cui andare fieri.
Arriva l’anno accademico 2010-2011, rinuncia a due degli esami necessari per il mantenimento della borsa di studio e perde non solo il posto alla Casa dello studente ma anche la copertura delle tasse universitarie. Cerca lavoro, chiede consigli e ne arriva uno: la raccolta dei pomodori a Nardò. In Puglia, scopre la piaga sociale, politica ed economica dell’agromafia e del caporalato. Il settore agroalimentare italiano è fonte di traffici lucrativi che fortificano la filiera agromafiosa.
Le infiltrazioni nell'agroalimentare - Come affermato dal VI Rapporto sui crimini agroalimentari dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, firmato da Coldiretti ed Eurispes, non vi sono zone esonerate dagli interessi delle grandi e piccole organizzazioni criminali che ne controllano la produzione, la trasformazione, il trasporto (a questo proposito, le infiltrazioni mafiose contribuiscono all’aumento dei prezzi del mercato ortofrutticolo spesso sproporzionato e con delle conseguenze sul sistema agricolo nazionale, sui cittadini e sui consumatori italiani), la commercializzazione e la vendita al pubblico. Si tratta di un settore che viene, così, manipolato da attori che, avendo risorse economiche maggiori, non fanno altro che accrescere il proprio patrimonio, di provenienza già illecita, guadagnando ulteriormente attraverso un settore che non conosce crisi. Questo circolo che vede annullati diritti, persone e ogni possibilità di riscatto ha la strada spianata anche a causa della carenza o debolezza di sistemi in grado di adottare e servirsi dei giusti mezzi di contrasto al fenomeno.
I mercati ortofrutticoli di Fondi, Milano e Vittoria sono solo alcuni degli esempi di società piccole e medie intestate a uomini di fiducia dei clan che, una volta infiltratisi, riescono a gestirne e deciderne le sorti grazie alle ingenti quantità di denaro possedute e alle capacità di contatto con le altre aziende. Non solo: le agromafie presentano governance multilivello “fondate sui principi di sussidiarietà, di proporzionalità e di partenariato tra specializzazioni, territori e campi di azione diversi”. Come constatato da Eurispes e Coldiretti, vi è, inoltre, un intreccio tra mafie a livello comunicativo mirante a un condizionamento sulla politica attraverso azioni di lobbying, la partecipazione al capitale delle banche, istituzioni finanziarie, fondi internazionali, società editoriali, canali televisivi e la presenza sul web o dark web. Sempre più forte, inoltre, è anche il controllo della vendita all’estero del made in Italy, vero e falso, anche attraverso la gestione dell’italian sounding, vale a dire prodotti il cui nome ricorda italianità ma, nei fatti, ci si ritrova con del finto Parmigiano Reggiano americano denominato “parmesan”.
Il controllo mafioso, dunque, passa dalla filiera produttiva, con il possesso di appezzamenti di terreno e la vendita al dettaglio dei prodotti, fino ad arrivare al reclutamento dei lavoratori e al controllo dei mercati ortofrutticoli. Così se, da un lato, Cosa Nostra catanese gestisce direttamente o con prestanomi aziende del settore ortofrutticolo (soprattutto di agrumi) attraverso l’imposizione dei suoi prodotti nei diversi punti vendita della grande distribuzione, ostacolando la vendita di quelli non controllati, imponendo l’agenzia di trasporto su gomma o impedendo agli autotrasportatori di fare commesse di viaggio senza il loro consenso, dall’altro lato, quella trapanese si impone nel mercato olivicolo.
La camorra, invece, fa da padrona nei mercati ortofrutticoli freschi e nel centro all’ingrosso di Fondi, ma anche nella gestione monopolistica del settore dei trasporti dei prodotti su gomma. La ‘Ndrangheta, d’altra parte, controlla il settore ittico, agrumicolo e dei trasporti attraverso attività di predominio nella provincia di Reggio Calabria, mentre esercita controlli nell’ortomercato di Milano, come dimostrato dalle indagini della DDA della stessa città nel 2017. Diversi esponenti della cosca Morabito di Africo, infatti, vi hanno creato una rete di cento società. Non mancano, inoltre, gli interessi della cosca dei Piromalli. Nella provincia di Foggia, poi, la criminalità pugliese sfrutta le campagne vitivinicole per ottenere percezioni di contributi ai danni dello Stato e dell’Unione europea.
Racket, usura, pascolo abusivo, estorsione, furti dei mezzi di trasporto, di rame, gasolio, animali, commercializzazione di prodotti contraffatti, smaltimento illegale dei rifiuti nei campi coltivati (la Terra dei fuochi o la sua corrispondente pontina sono solo alcune delle tragedie che affliggono il nostro territorio). Riciclaggio del denaro sporco nella frontiera dell’High frequency trading. Possesso di intere catene di ristorazione, qui e all’estero. Sfruttamento e caporalato. Yvan Sagnet ha spiegato come il neo-schiavismo corrisponde al totale affidamento involontario e forzato della propria vita alle regole del padrone. Si lavora dalle cinque del mattino alle otto di sera. Il tempo dei braccianti è gestito totalmente dai caporali. Ci si abitua presto alle case di plastica e di cartone che anche Diletta Bellotti ha ben conosciuto quando ha deciso di studiare sul campo le ingiustizie subite dai lavoratori sfruttati dalle agromafie.
Ci si abitua anche alle ore di fila per poter usufruire dei quattro o cinque bagni a fronte delle centinaia di persone che abitano i ghetti. Non si tratta di sfruttamento: è schiavitù. “(…) mi spiegarono che il salario non veniva calcolato sulla base delle ore di lavoro ma piuttosto su quella del numero di cassoni riempiti”, ha scritto Sagnet nel suo libro. Conta la velocità: più cassoni riempi, più soldi guadagni. Le ore, sempre le stesse. “Scoprii che un cassone conteneva tre quintali di pomodori; veniva pagato tre euro e cinquanta, per i pomodori normali, e sette per quelli più piccoli”. Per ottenere la stessa cifra guadagnata durante la sua esperienza lavorativa al supermercato avrebbe dovuto raccogliere un quintale di pomodori ogni venti minuti. Cinque chili al minuto.
Secondo il rapporto Flai-Cgil, in Italia, nel settore agricolo ci sono circa 450 mila persone sfruttate di cui 130 mila sono quelle trattate come schiavi. Vi rientrano, dunque, i dipendenti con contratto regolare non rispettato e i lavoratori in nero. Molti prodotti agricoli di importazione, inoltre, sono la conseguenza del caporalato invisibile, inosservato dal momento che avviene in territori lontani in cui lo sfruttamento del lavoro minorile è normalizzato. La prima legge sul caporalato, in Italia, arriva grazie alla lotta e agli scioperi organizzati da Yvan Sagnet nella Masseria Boncuri. Solo nella provincia di Foggia vi sono 50 mila braccianti agricoli, 15 mila dei quali sono controllati dai caporali.
Hanno iniziato bloccando il traffico e hanno continuato cercando di influire quanto più possibile sull’opinione pubblica e sugli altri braccianti che, temendo di perdere il lavoro o di subire violenze indicibili dai padroni, sottostavano al sistema dei caporali silenziosamente, autoconvincendosi che fosse l’unica strada percorribile. Ma Yvan Sagnet ha dimostrato loro che un’altra vita era possibile, ed era quella vera. La sola. Regolarizzare è una questione di diritti, giustizia, equità e prospettive future. “La nostra idea di base è che si attui quello che il grande filosofo e politico Antonio Gramsci auspicava e suggeriva con grande lungimiranza dopo aver studiato la specifica situazione italiana: l’alleanza tra i lavoratori con i contadini e la piccola borghesia”, ha dichiarato l’ingegnere attivista.
Sempre grazie a lui, questo Paese introdurrà il reato di caporalato, mentre l’Europa vedrà il primo processo sulla riduzione in schiavitù. Dalla protesta alla proposta, come ha affermato durante la serata al Mundi: è così che nasce No Cap, una rete di lotta al caporalato e di sostegno a un’agricoltura sostenibile, etica, egualitaria e rispettosa dei diritti di tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici. Venendo meno l’arroganza del produttore, infatti, vi è il trionfo del rispetto. “Bisogna lavorare per educare, per prevenire”, ha ricordato Sagnet, creando un’alleanza tra braccianti e contadini, e partendo dai diritti economici per conquistare anche quelli sociali. Con le lotte di Giuseppe Di Vittorio che fanno da torcia, ricorda come il caporalato è funzionale al sistema, non ne è la causa che, invece, è economica. No Cap, dunque, mira alla tutela di tutti i soggetti più fragili che, ad oggi, sono le donne e i migranti. Le principali prede dei caporali.
Diletta Bellotti, attivista che si batte per i diritti umani, per quelli dei braccianti sfruttati dal caporalato e invisibili ai più, dando loro la giusta visibilità, si avvicina a Sagnet leggendo il suo libro. Quella per la giustizia sociale diventa, quindi, anche la sua lotta. Studia ma sente che vuole attuare, passando dalla teoria alla pratica, quello che apprende. Nell’estate 2019, quindi, viene ospitata nella baraccopoli Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia. A seguito di questa esperienza, attiva una campagna di sensibilizzazione che parte con “pomodori rosso sangue”.
Quando Diletta Bellotti chiede a Yvan Sagnet come vede la lotta al caporalato tra dieci anni, quest’ultimo è positivo, con la speranza che si spronino gli italiani, quando fanno la spesa, a chiedersi da dove provengano i prodotti che acquistano. Uno dei temi fondamentali, inoltre, è quello del lavoro grigio che si sviluppa quotidianamente nell’azienda ed è difficile da tracciare. Proprio per questo, di fondamentale importanza diventa un lavoro serio e affidabile dell’ispettorato del lavoro e, dunque, una sua riforma. Se, infatti, vi è una cultura diffusa dell’impunità è perché mancano i controlli. La tracciabilità della filiera, inoltre, è un problema di vecchia data. “Il problema è la credibilità e l’affidabilità di chi fa la tracciabilità, come viene organizzata la tracciabilità”.
Come ha spiegato Diletta Bellotti, la politica agricola comune (PAC), invece, che rappresenta un’intesa stretta tra agricoltura e società, tra l’Europa e i suoi agricoltori, è un disastro sia a livello ambientale che etico, soprattutto perché contribuisce a incentivare l’agroindustria. Si tratta di un passo fatto dall’Unione europea poco seguito, che ha ricevuto poca attenzione mediatica nonostante si tratti di uno dei più grandi sussidi al mondo. “Sono tutti fondi che vanno all’agricoltura. Tecnicamente sono tutti fondi che sarebbero dovuti andare all’agricoltura sostenibile, intesa in senso ampio, quindi anche etica, e continua a essere promossa in questo modo. (…) Alcuni parlamentari europei hanno parlato dell’inserire la tematica sociale, e, nella campagna europea, è stata lanciata l’iniziativa dei cittadini europei che è un mezzo di democrazia diretta che hanno per portare avanti delle istanze, per poter essere ricevuti”. Il problema, come ha spiegato, è che i fondi europei, nel momento in cui vengono allocati, dovrebbero di già essere controllati sia a livello di sostenibilità che di eticità. Ma questo non accade. “Il problema è proprio il tipo di mercato agroalimentare, cioè una filiera troppo lunga in tutta Europa e nella maggior parte dei posti del mondo, per essere controllata”. In questo senso, quindi, la filiera corta è quella più sostenibile.
Un altro urgente problema riguarda il consumo di cibo. La nascita del primo supermercato in Italia, Esselunga, ha creato un’aspettativa di possibilità al cibo acquistabile irreale rispetto a quello che la terra può dare e rispetto al prezzo al quale il lavoratore può produrre. “Noi siamo abituati a vedere nei supermercati degli scaffali sempre pieni, con del cibo sempre pronto, sempre fresco, che viene sprecato, spesso e volentieri. E questo succede per il meccanismo del supermercato”. Accorciare la filiera, spiega Bellotti, quindi, significa anche andare dall’agricoltore e chiedere informazioni reali e utili per capire il collegamento che c’è tra i cambiamenti naturali e la produzione. Necessario, quindi, è il riadattamento a questo modello sostenibile. Diversamente, la terra e chi la lavora non può farcela.
Si tratta di un Paese che antepone il mercato e l’economia ai diritti. E dove c’è mafia non vi sono questi ultimi. La Grande distribuzione organizzata (Gdo) gestisce attività commerciali sotto forma di vendita al dettaglio di prodotti alimentari (e non solo) di largo consumo, in punti vendita a libero servizio e distribuiti su tutto il territorio nazionale. Le sue catene commerciali sono composte prevalentemente da centri commerciali, outlet center, catene di discount, factory e, ad oggi, risulta essere per molti l’unico canale per restare sul mercato ma anche facile occasione per le mafie per nascondere intere aziende controllate dai loro affiliati, riciclare denaro illegale e allargare gli interessi anche a livello internazionale.
La politica, tutta, ma anche i singoli cittadini non devono lasciare sole le persone che denunciano; è necessario, inoltre, intervenire sui singoli casi dell’intero territorio nazionale perché nessuno sia più costretto a ore lavorative disumane pena il ricatto e il licenziamento. Perché i caporali, la violenza e le organizzazioni mafiose ne escano indebolite e, un giorno, distrutte. Perché baracche, ghetti e tuguri ritornino a essere solo baracche, ghetti e tuguri, non case. La tutela e il sostegno, anche psicologico, dei lavoratori e delle lavoratrici è un diritto inalienabile. Ripartiamo dalla Costituzione.
Giorgia Cecca