Ecco perché Matteo Messina Denaro voleva uccidere Borsellino
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Il latitante Matteo Messina Denaro voleva la morte del giudice Paolo Borsellino, soprattutto per una ragione strettamente personale: Borsellino aveva istruito il processo in cui era stato condannato il padre Francesco, costringendolo alla latitanza. Una latitanza resa ancora più complicata dalle fragili condizioni di salute.
E’ quello che emerge dalle motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo per il boss di Castelvetrano, che i giudici della corte d’Assise di Caltanissetta hanno firmato lo scorso ottobre.
Matteo Messina Denaro imputava a Borsellino “una gestione strumentale di quei collaboratori di giustizia (cfr. Calcara, Spatola, Filippello) – si legge nelle motivazioni depositate un mese fa – che, nonostante la loro ritenuta estraneità a Cosa Nostra, avevano reso false dichiarazioni che avevano investito la nomenclatura trapanese e proprio il padre Messina Denaro”.
E la sua convinzione era ancora più accentuata nei confronti di Vincenzo Calcara.
“Eravamo quasi certi, o qualcuno era quasi certo – ha dichiarato il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori – che queste collaborazioni erano state strumentate e costruite apposta, perché dobbiamo analizzare il periodo storico, in quel periodo non c’erano dei collaboratori veri, veri nel senso che venivano da Cosa Nostra, quindi qualcuno pensò di… di strumentalizzare queste persone, tanto è vero che hanno fatto dei processi con questi collaboratori. Poi sono subentrati i veri collaboratori, intendo che venivano dal di dentro di Cosa Nostra, e molti processi sono andati come dovevano andare. Quello che ricordo io è che anche Matteo diceva che Calcara l’aveva istruito… l’aveva costruito a dovere Borsellino”.
Questa invece la dichiarazione di Vincenzo Geraci:
“Io l’ho chiesto una volta a Matteo, quando è successo questo caso, che lui (Calcara, ndr) ha collaborato con la giustizia, ho chiesto a Matteo, Matteo mi ha detto, e anche suo papà quando l’ho incontrato ‘questo è pazzo – dice – si è inventato tutto, non ha mai fatto parte di Cosa Nostra’”.
Ecco perché Messina Denaro non avrebbe esitato nemmeno un momento quando Totò Riina propose l’eliminazione del magistrato, in quella riunione a Castelvetrano nel 1991. L’allora capo della cupola sfondava una porta aperta e l’assenso del boss, da un po’ succeduto al padre Francesco, si incastrava perfettamente con la strategia di Cosa nostra. Una strategia già evidente dal primo omicidio eccellente, quello di Salvo Lima.
Secondo la sentenza di Caltanissetta, gli attentati e le stragi del ’92 e del ’93 “dovevano essere funzionali a far perdere la fiducia della popolazione in chi stava al governo, così da costringere il potere politico ad interloquire in condizioni di debolezza con il sodalizio mafioso”.
Ma l’intenzione di Totò Riina di uccidere Borsellino risalirebbe già al 1979-80, per il mancato trattamento di favore del cognato Bagarella e per l’impegno del Capitano Basile nel portare alla sbarra i killer.
Brusca racconta che, per il cognato, Riina “mi aveva chiesto più di una volta di poterlo avvicinare per ottenere un trattamento di favore, insabbiare in qualche modo le indagini, per poterlo scagionare dall’accusa”.
Qualcuno in effetti aveva poi contattato Borsellino, ma “ci fu un rifiuto totale”.
Certo è che le stragi, a prescindere dalle motivazioni personali di Riina e di Messina Denaro, ci furono perché fecero parte di una strategia.
Gli omicidi eccellenti hanno lo stesso filo rosso: “vuoi l’essere nemici storici e prospettici di Cosa Nostra (Falcone e Borsellino in primis), - si legge ancora nella sentenza di Caltanissetta - vuoi l’essere contigui al sodalizio fino ad esserne divenuti referenti, ma anche traditori (Lima e Salvo)”.
La mafia, si rivela dunque un sistema di potere che “non intende sostituirsi a quello legalizzato delle Istituzioni pubbliche, ma di stringervi un solido patto di interesse e necessità reciproci che faccia vivere i due sistemi in simbiosi”.
Insomma, l’eliminazione dei vecchi referenti politici “non era certamente disgiunta dalla ricerca di nuovi e più adeguati canali” che garantissero una sostanziale impunità, permettendo gli affari più lucrosi, “gli appalti, il traffico di stupefacenti ed il riciclaggio”.
Egidio Morici
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