Borsellino, gli appalti ed il verbale desecretato di Falcone. Davvero fu Trattativa?
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Anche quest’anno, il fiume di parole su verità e giustizia ha attraversato l’ennesima commemorazione della strage di via D’Amelio.
La morte del dottor Borsellino e di quasi tutta la scorta (sopravvisse soltanto Antonio Vullo) ha compiuto 29 anni. Un anno di meno rispetto alla latitanza di Matteo Messina Denaro.
Il boss castelvetranese non si trova, proprio come la verità sulla strage di quel 19 luglio 1992.
Quest’anno c’è un altro tassello: oltre che per le bombe del ’93, Messina Denaro è stato condannato anche per Capaci e Via D’Amelio, lo dice la sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta: ha avuto un “ruolo determinante per i piani stragisti”.
Di pochi giorni fa è invece la relazione dell’antimafia regionale che fornisce soltanto una certezza: i depistaggi. Da quello del falso pentito Scarantino (definito dalla sentenza “Borsellino Quater”, uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana) a quello del dichiarante Maurizio Avola, le cui parole vengono interpretate come “una riscrittura radicale (e assai tranquillizzante) della strage, una versione dei fatti e dei mandanti che vorrebbe ribaltare la ricostruzione processuale offerta in questi anni da Spatuzza – si legge nella relazione firmata da Claudio Fava - che in più occasioni ha confermato la presenza di un estraneo a Cosa nostra attorno alla 126 imbottita d’esplosivo il giorno prima della strage.”
Invece, secondo Avola, in quel garage a Palermo non c’era nessun estraneo, perché quell’uomo era lui. Anche se, nella mattinata precedente il giorno della strage, si trovava col braccio ingessato a Catania.
Qualcosa in più la fornisce l’audizione in Antimafia del giudice Giovanni Falcone, avvenuta nel 1990 e desecretata pochi giorni fa dal presidente della Commissione nazionale, Nicola Morra. Quest’ultimo ha raccolto l’invito del quotidiano Il Dubbio in cui veniva riportata la richiesta dell’associazione “I Cittadini contro le mafie e la corruzione”, presieduta da Giuseppe Ciminnisi.
Il verbale inizia così:
“Lo scopo della nostra missione a Palermo è anche quello di avviare una nostra indagine, che potrebbe trasformarsi, in seguito, se sarà necessario, in una vera e propria inchiesta secondo i poteri che la legge ci consente, sulla questione degli appalti e di tutte le disposizioni legislative che li regolano, in provincia di Palermo. Vi chiediamo quindi un’informazione, ovviamente nei limiti consentiti dal segreto istruttorio, sulle inchieste giudiziarie in corso sugli appalti in questa provincia”.
Dopo qualche passaggio, si legge: “E’ da ricordare, inoltre, che l’indagine sul gravissimo delitto politico mafioso in danno di Piersanti Mattarella ha subìto e subisce tutt’ora gravi intralci a causa di inquietanti depistaggi”. Tanto per cambiare.
Ad ogni modo, i temi che emergono prepotentemente sono due: il dossier Mafia-appalti e l’omicidio Mattarella.
“Per quanto riguarda il problema dei pubblici appalti – spiega Falcone - abbiamo detto in più riprese e ormai da anni, che è un punto cruciale nella strategia antimafia. Abbiamo sostenuto ciò e le prove e le indagini che ad esso vengono, una dopo l’altra, a compimento e a maturazione ce lo confermano. Abbiamo la conferma di un sistema mafioso che, per quanto concerne i grandi appalti, ed anche nei piccoli centri per tutti gli appalti, ne gestisce in pieno l’esecuzione”.
Mancini gli chiede se la cosa riguarda sia le imprese private che quelle a partecipazione statale.
E Falcone risponde così:
“Si. Nel secondo caso ancora di più. Abbiamo poi un problema di incidenza a monte e quindi nella fase di aggiudicazione degli appalti, ma soprattutto abbiamo un condizionamento mafioso nell’esecuzione degli appalti medesimi: sub-appalti, o forniture, eccetera. Allo stato (purtroppo o per fortuna le cose accadono tutte in una volta), stanno venendo a maturazione in questo momento i risultati di indagini svolte in almeno un biennio dai carabinieri di Palermo, con encomiabile professionalità, e sta venendo fuori un quadro della situazione che non esiterei a definire preoccupante. Possiamo ritenere abbastanza fondato che c’è almeno nella Sicilia occidentale una centrale unica di natura sicuramente mafiosa che dirige e l’assegnazione degli appalti e soprattutto l'esecuzione degli appalti medesimi, con inevitabili coinvolgimenti delle amministrazioni locali sia a livello di strutture burocratiche sia a livello di alcuni amministratori”.
Sembra un cortocircuito rispetto alla narrazione prevalente che, nel corso degli anni, ha posto come motivo della strage la trattativa Stato-mafia.
L’ipotesi alternativa, collegata invece col dossier mafia-appalti, ha sempre fatto fatica ad avere dignità di attenzione. Anche perché a quell’indagine lavoravano Mario Mori e Giuseppe De Donno.
E “con encomiabile professionalità”, dice lo stesso Falcone in audizione nel 1990.
Però i due carabinieri del Ros, sono diventati l’emblema della trattativa Stato-mafia. Davvero possiamo pensare che uno come Falcone non si fosse accorto che questi erano i “nemici” dell’Italia?
Poi, nel verbale desecretato, Falcone parla anche dell’omicidio Mattarella.
Non è solo. Con lui ci sono Carmelo Conti, allora presidente della Corte d’appello di Palermo, il procuratore generale Vincenzo Pajno, il procuratore di Palermo Pietro Giammanco e i due giudici istruttori Leonardo Guarnotta e Gioacchino Natoli.
Certo, emerge la teoria degli “aiuti esterni” alla mafia, ma non sembra proprio che la cosa possa avere a che vedere con piani della destra eversiva, destabilizzazioni politiche e complotti.
Quello di Mattarella rimane infatti un omicidio mafioso, ma “affidato a personaggi che non avrebbero dovuto avere collegamenti con la mafia”.
“Il 1980 ha rappresentato il momento più acuto di quella crisi che sarebbe poi sfociata nella guerra di mafia – spiega Falcone - da un lato vi erano Bontade e Inzerillo (Badalamenti era stato già buttato fuori da Cosa Nostra) mentre dall’altro vi erano i corleonesi. Un dato è certo ed è stato confermato anche da Marino Mannoia recentemente: questo omicidio non avrebbe potuto essere consumato senza il benestare di Cosa Nostra. Mannoia ha fatto un esempio che mi sembra assolutamente chiaro: quando abbiamo un omicidio e non si sa esattamente che cosa sia avvenuto e perché quella persona è stata uccisa, in seno a Cosa Nostra succede il finimondo perché ovviamente ognuno cerca di capire da dove è partito il colpo”.
Più che pupari politici e mandanti esterni, emerge con chiarezza una matrice squisitamente mafiosa. O meglio, di quella parte di mafia che voleva la morte di Mattarella ma che non avrebbe potuto reggere una decisione davvero collegiale a causa di una crisi tutta interna a Cosa nostra. Crisi che in seguito sarebbe diventata quella sanguinosa guerra vinta, se così si può dire, dai corleonesi di Totò Riina.
Ma un’idea diversa dalla narrazione fino ad oggi più diffusa sui motivi della strage di via D’Amelio, emerge come un urlo dal programma “Radio 1 In Campo”, di Anna Maria Caresta e Gianfranco Valenti.
Ad esprimerla è l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli del dottor Borsellino che, ospite nella trasmissione andata in onda proprio lo scorso 19 luglio (la potete riascoltare qui), sottolinea con forza come il giudice avesse definito il proprio ufficio un “nido di vipere”.
“La narrazione unica di questi anni ha dimenticato quello che Borsellino ha subìto e nei 57 giorni (dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio, ndr) – dice in radio l’avvocato Trizzino - Quello è il punto vero, il ‘nido di vipere’. Si parla tanto dell’urgenza e dell’accelerazione dell’uccisione di Borsellino ma non si parla dell’urgenza e dell’accelerazione dell’archiviazione del dossier ‘mafia-appalti’. Il corpo di Borsellino era ancora caldo quando fu ratificata l’archiviazione, un procedimento per il quale, normalmente, ci vogliono sei o sette mesi. In quindici giorni il dossier viene archiviato e lo sa parchè? Era un messaggio di rassicurazione all’esterno. Bisognava mandare un messaggio all’esterno dicendo ‘attenzione, io sto facendo quello che debbo fare’ perché Giammanco è preoccupato e ha paura anche lui di saltare in aria”.
Ed in quel nido evidentemente c’erano così tante vipere che il 25 giugno del ’92, Borsellino ha paura del suo ufficio e, non fidandosi dei suoi colleghi, convoca Mori e De Donno alla caserma Carini.
Particolare di cui si è sempre parlato poco. Perché?
“Perché chi parla di certe cose è stato protagonista di quella stagione, di quella gestione del dossier e quindi ha un interesse in conflitto con una ricostruzione a tutto tondo che invece noi reclamiamo con forza”.
L’impressione è che oggi la verità su quella strage sia ancora lontana. Come, forse, la cattura di Matteo Messina Denaro.
Egidio Morici
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