Dei morti per colera di Salemi dimenticati da ogni umana pietà ce ne occupammo nell’ottobre del 2014.
L’occasione ce la offrì il dottore Vito Surdo, salemitano, per un trentennio primario di ortopedia e traumatologia in Veneto, presso l’Ospedale di Mirano.
Il noto ortopedico ci aveva confidato di avere in quel periodo messo in agenda non il nome di un nuovo paziente, ma il proposito di concretizzare un progetto denso di grande valore umanitario.
Una sorta di risarcimento morale e civile nei riguardi di quei seicento salemitani morti per una pandemia di “cholera morbus”, il famigerato colera giunto in Sicilia dal lontano estremo oriente negli anni trenta del diciannovesimo secolo dello scorso millennio.
Torniamo a riparlarne oggi che la missione è arrivata alla sua felice conclusione.
La tormentata vicenda del cimitero dei colerosi di Salemi è raccontata in un suo libro dal titolo “I morti dimenticati. Breve storia del ritrovamento del cimitero dei Colerosi di Salemi e delle vicende che hanno portato alla sua nuova sistemazione”.
Il libro di Vito Surdo, con dovizia di aneddoti ed una meticolosa documentazione, è la cronaca dettagliata di come si è scoperta l’esistenza del cimitero dei colerosi, di come si è arrivati al suo recupero, e del positivo epilogo.
Il tutto a beneficio di quanti ancora non conoscono la sua storia, se non addirittura l’esistenza.
Nel raccomandarne la lettura, in sintesi ne anticipiamo alcuni passaggi.
Tutto ha inizio con l’arrivo del morbo in Italia, che dal nord si diffuse poi nel napoletano, e poi anche in Sicilia a partire dal 1837, quando una nave proveniente dall’Asia, con un equipaggio in prevalenza di egiziani, approdò al porto di Siracusa.
Contrariamente al Covid-19 di oggi, nessuno allora parlò di batteri creati in laboratorio per attentare alla civiltà occidentale. Erano i tempi in cui le epidemie e le pandemie si susseguivano periodicamente.
Salemi, come tanti paesi delle coste come dell’entroterra isolana, non ne rimase indenne.
Con poco più di 14 mila abitanti, le cronache del tempo riferiscono che nel paese si ebbero fino a 42 morti al giorno. Mentre gli ammalati colpiti dal colera superarono le duemila unità. “Un anno di tomba, di sterminio e di morte”, scrive lo storico salemitano Giuliano Passalacqua.
E diversamente non poteva essere, dal momento che le condizioni igienico-sanitarie erano pessime in tutta l’Isola. Mancanza di acqua potabile nelle case, servizi igienici inesistenti, le fognature assenti, pubblici mondezzai agli incroci stradali. Questo era l’aspetto ambientale nella sua quotidianità dei paesi siciliani e di Salemi.
Persino nella centralissima “Stata Mastra”, al calare delle tenebre, dalle finestre, puntualmente e con estrema rapidità, facevano capolino i “cantari”, di grezza creta o smaltati che fossero, a riversare il loro contenuto, certamente non gradevole all’olfatto né tantomeno all’estetica.
Eppure, oggi sui social c’è chi rimpiange quei tempi, come la perdita l’Età dell’Oro. Così come certa pubblicistica antistorica e revisionista vorrebbe accreditare la falsa idea che quella dei Borboni fosse il Regno di Bengodi, quando invece regnava la miseria più nera e la sporcizia più diffusa!
Per salvare il salvabile, con l’incalzare del colera, le norme igieniche emanate dal governo borbonico divennero severissime. Troppo tardi.
L’Amministrazione comunale si limitò a fare ciò che meglio poté: istituì posti di blocco (la storia si ripete) per isolare la cittadina, e identificò un’area da adibire a fossa comune. Amen!
Nessun provvedimento per migliore le condizioni igieniche generali che rimanevano le cause endemiche per favorire e diffondere più rapidamente la pandemia, considerando infine anche le condizioni climatiche, ideali per il proliferare del batterio dovute alla calura agostana del periodo più acuto del suo diffondersi.
A conferma di quando diciamo, si tenga presente che dagli atti statali dell’epoca risulta che la popolazione maggiormente colpita fu quella che occupava i quartieri più poveri della città. Quella orbitante attorno ai palazzi patrizi ebbe la meglio.
Per il cimitero dei colerosi, fu scelto un terreno fuori dalle mura cittadine, a sud-est del paese, nella contrada Serrone, dirimpetto alle grotte paleolitiche della Munnura.
Sarà uno dei tanti Cimiteri dei Colerosi sparsi per le terre italiche (famoso quello di Barre, presso Napoli) destinati, con il passare degli anni, ad essere abbandonati alle sterpaglie e dimenticati da Dio e dal Popolo.
E quello di Salemi non fece eccezione.
Il ricordo di quei morti seppelliti fuori dalle mura cittadine apparteneva ormai alla Natura. Non lo dice pure la Bibbia? “Polvere tu sei e in polvere ritornerai!" (Genesi, 3,19). Giusto. Ma la tanto decantata pietas virgiliana, la qualità di cui sarebbero dotati i siciliani? In questo caso, assente.
Dell’esistenza del cimitero dei colerosi di Salemi, Vito Surdo prende consapevolezza, in una giornata uggiosa di pioggia che lo costringe a restare in casa a leggere.
Galeotto fu il romanzo storico di Alessandro Catania, un medico salemitano vissuto a cavallo tra l’800 e il primo trentennio del 1900.
Il titolo, “Gli Illusi”, è emblematico.
Vi viene descritta la delusione delle classi popolari e degli intellettuali progressisti causata dalla rivoluzione garibaldina troncata e dal tradimento dei nuovi ascesi al potere. Il tutto consumato all’insegna del “tutto deve cambiare perché nulla cambi”.
Sorprendentemente, lo scrittore salemitano anticipava di mezzo secolo, il tema che permea le pagine del celeberrimo “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa.
Basti pensare che per il Plebiscito dell’ottobre del 1860, i Siciliani che votarono a favore dell’adesione al Regno d’Italia furono il 99,85%. I contrari solo lo 0, 15%.
E i nobili, i latifondisti, la grande burocrazia, l’alto Clero fino al giorno prima filoborbonici? Tutti in soccorso del vincitore Garibaldi! Come, alcuni lustri dopo, nel 1945 con la caduta del fascismo, tutti antifascisti, e come oggi i berlusconiani di una volta, in fuga verso il leghismo.
Ma torniamo al libro di Catania. Già nelle primissime pagine, vi viene tratteggiato un personaggio con uno singolare nome slavo.
Il medico scrittore ci racconta che un tale “don Stanislao, ogni lunedì, facesse tempo cattivo o bello, d’estate come d’inverno, si recava al cimitero dei colerosi poco distante da Salemi, al Serrone, a recitare una preghiera per la perduta moglie”.
Tre righe rivelatrici e che fanno scattare la molla della curiosità nell’ortopedico Vito Surdo.
Per prima cosa, si reca sul posto, al Serrone. Ai suoi occhi una distesa anonima di terreno incolto. Unica traccia del cimitero, un cumulo di tufi erosi dalle intemperie e dal fluire inesorabile del tempo. Per il resto, un luogo privo di identità. Nulla di sacralità. Di tanto in tanto il monotono belare di qualche gregge. In lontananza, le bianche case di Salemi abbarbicate sulla collina.
Nessun segno che testimoni una compassionevole memoria umana. Un luogo affidato solo all’abbraccio di una rigogliosa vegetazione spontanea. Un pianoro che nei mesi primaverili esplode in mille papaveri rossi con svettanti spighe fiorite di Asfodeli, che per gli Elleni (solo un caso?) erano le piante dei Morti.
Si dice che fino alla vigilia della seconda guerra mondiale una Croce in ferro, sia pure obliquamente, restasse a testimoniare la sacralità del luogo. Ma poi il “patriottismo” di un Podestà si incaricò di donarla agli osannanti fascisti, finendo nelle fonderie trasformata in un’arma da guerra. Fascisti, che nel ’46, come i progenitori filoborbonici, faranno il salto della quaglia nel campo degli antifascisti.
Subito dopo la seconda guerra mondiale, uno dei primi sindaci salemitani della nuova Repubblica, avrebbe voluto riqualificare l’area del colerosi. L’intenzione era di destinarla a cimitero secondario della città.
Non se ne fece nulla. Non c’è da stupirsi. La storia di Salemi è costellata di tanti buoni propositi, rimasti solo buoni propositi.
Stesso destino non ha avuto quello del dottore Vito Surdo. Solo chi non ha mai conosciuto la sua cocciutaggine e la sua determinazione avrebbe messo in dubbio la realizzazione del suo progetto.
L’ imperativo per lui da quel momento diventa un solo: ridare dignità ad un luogo dove da circa due secoli in una fossa comune giacciono sepolti i corpi di 600 uomini e donne di ogni età martoriati dal micidiale batterio del “Vibrio cholerae”.
Seguiranno lunghi mesi passati alla ricerca di testimonianze sia orali sia scritte, consultazioni negli uffici del Catasto, letture degli archivi parrocchiali e di testi di storici locali.
Comporterà anche un suo impegno economico personale.
Unito alla generosità di artigiani e professionisti, come l’architetto Vito Scalisi, il geometra Giovanni Grimaldi, il mastro muratore Nonò Lombardo i quali hanno prestato la loro opera e competenza a titolo gratuito, all'intervento del Comune tramite il sindaco Domenico Venuti, e al silenzioso supporto della presidente dell’Ada Maria Cusumano il progetto è andato in porto felicemente.
Ovviamente tutta l'area è stata ripulita dalla vegetazione. E’ stato eretto un nuovo cippo in pietra sormontato da una nuova croce e con un unico giovane albero di carrubo piantato a fianco.
In queste occasioni, la tentazione della retorica è sempre dietro l’angolo.
Il monumento realizzato invece è privo di orpelli e decori di dubbio gusto.
Anzi. Per la sua francescana semplicità crediamo che sia stato scelto il modo migliore per rendere finalmente, dopo 180 anni circa, onore e dignità a quei lontani progenitori, abbandonati ad una lunga quarantena anche dopo morti, e riportati alla memoria anche visiva con un manufatto armonicamente in sintonia con l’ambiente.
Franco Ciro Lo Re