La vicenda delle intercettazioni effettuate dalla Procura di Trapani nei confronti di molti giornalisti che si occupavano delle Ong e dei salvataggi dei migranti in mare sta facendo discutere, molto, non soltanto in Italia ma in tutto il mondo.
Questo perché in ballo c’è il ruolo della libera stampa, che è il bene probabilmente più caratterizzante le democrazie liberali. Procediamo con ordine, però. Da quanto scrivono i giornali – e in particolare il “Domani”, il quotidiano che ha svelato la vicenda – pare che sia stata intercettata e – successivamente – anche trascritta una conversazione fra una giornalista ed il suo legale: se confermata, la circostanza sarebbe gravissima, perché violerebbe l’art 103 del codice di procedura penale che vieta, fra l’altro, l’intercettazione delle comunicazioni fra il difensore ed il proprio assistito. Peraltro, non solo l’intercettazione ma addirittura la trascrizione della stessa non farebbe che aggravare la circostanza. Ma andiamo oltre: ad essere state intercettate sono state anche le conversazioni di molti giornalisti, non indagati, con le loro fonti. Il fine appare evidente: ascoltare le conversazioni dei giornalisti, conoscerne le fonti confidenziali, risalire agli autori di un (supposto) reato. E’ lecito tutto ciò? Bisogna chiarire che le intercettazioni – richieste dal pubblico ministero – sono state autorizzate da un giudice. Le intercettazioni, però, sebbene appaiano irrilevanti per l’indagine – così almeno hanno spiegato dalla Procura di Trapani, pare siano state comunque trascritte, e ciò desta non poche perplessità, per usare un eufemismo, proprio in virtù delle norme procedurali.
Ma al di là degli aspetti più tecnici della vicenda – per i quali è d’obbligo riservarsi in attesa degli accertamenti predisposti dal Ministro della Giustizia Cartabia – c’è l’aspetto più importante, quello su cui si stanno interrogando i principali giornali del mondo, fra cui il The Guardian, e cioè se l’Autorità Giudiziaria possa intercettare dei giornalisti per risalire, attraverso le loro fonti, agli autori di un reato. Per comprendere il clamore delle reazioni bisogna tener presente due presupposti: la nostra legge (art. 200 codice procedura penale) tutela le fonti giornalistiche, riconoscendo al giornalista il segreto professionale, e la giurisprudenza comunitaria vieta ai giornalisti la divulgazione delle proprie fonti, anche laddove ciò sia necessario per l’individuazione di un reato. Sebbene la norma preveda che il giudice possa obbligare il giornalista a violare il silenzio laddove ciò sia necessario ai fini della prova del reato, nel caso che riguarda la vicenda di Trapani bisogna precisare che 1) non si è davanti a questo specifico caso perché si tratta di aver intercettato – e poi a quanto pare anche trascritto – conversazioni fra soggetti non indagati (giornalisti e le loro fonti), 2) numerose sentenze della Corte di Giustizia europea ritengono che neanche dinanzi all’ordine del Giudice il giornalista possa svelare la propria fonte, eccezion fatta per questioni che riguarderebbero la sicurezza nazionale (il classico caso di una fonte che rivelerebbe ad un giornalista i progetti di un attentato), escludendo con ciò ogni altra indagine per reati che non desterebbero un imminente pericolo per l’incolumità nazionale.
Ora, la questione, meno tecnica ma probabilmente più importante è la seguente: per scoprire gli autori di un reato o per venire a capo di una inchiesta penale, un pubblico ministero può usare – peraltro a loro insaputa – dei giornalisti? La risposta, per chi ha cuore i principi di un moderno Stato di Diritto, non può che essere negativa. La libera stampa – il Quarto Potere – è tale solo se è libero da ogni controllo e da ogni condizionamento, e dunque anche dal controllo o condizionamento – diretto o indiretto – del Potere Giudiziario. I giornalisti devono essere gli occhi dei cittadini, e non la voce di un Potere, compreso dunque il Potere giudiziario. Le inchieste dei giornalisti corrono, infatti, su un binario parallelo rispetto a quelle dell’autorità giudiziaria, hanno finalità diverse e non possono mai subire condizionamenti. Ecco, perché, la vicenda è di particolare gravità, perché il tentativo di carpire – sebbene per fini di giustizia – le fonti ed i segreti della stampa non si concilia in alcun modo con i principi di una Democrazia liberale. Perché se si accettasse il principio per cui ogni giornalista – per fini superiori di giustizia – possa essere intercettato, lo sarebbero tutti i giornalisti e la stampa finirebbe sotto il controllo del potere giudiziario. Questa indipendenza della Stampa dovrebbe essere tutelata sempre, ed anzitutto lo dovrebbe essere per mano degli stessi giornalisti, anche di quelli che talvolta dimenticano di essere gli occhi dei cittadini e diventano la voce dell’autorità giudiziaria, e dunque di un Potere: una anomalia tutta italiana, che nulla c’entra con il giornalismo di inchiesta.
Chi davvero sa cosa si intende per giornalismo di inchiesta non può che guardare al modello anglosassone (e specialmente statunitense), che lo ha forgiato: nei grandi fatti di cronaca – giudiziaria e non solo – il Quarto Potere esercita il proprio controllo anzitutto nei confronti dell’autorità giudiziaria e dei suoi atti: non esiste alcun collateralismo fra la stampa e gli uffici del procuratore generale, perché spetta proprio alla stampa controllare il lavoro dei procuratori generali. E’ questo il ruolo del Quarto Potere: essere il cane da guardia nei confronti di tutti i Poteri, e dunque anche del potere giudiziario, anzi soprattutto del potere giudiziario perché è il potere che più di altri – in maniera diretta – può limitare le libertà dei cittadini. Ecco perché questa storia richiede non solo che sia fatta piena luce sui fatti ma chiama la stampa tutta ad una assunzione di responsabilità, nei confronti della pubblica opinione, che deve essere l’unico referente del Quarto Potere.
Valerio Vartolo