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24/02/2021 06:00:00

I nuovi maestri

di Lavinia Spalanca

Avete presente Jack lo sciamano? Quello che a torso nudo, con un cappello di pelliccia e le corna da vichingo, ha guidato l’assalto a Capital Hill? E ricordate le tragicomiche immagini dei facinorosi, con felpa e cappuccio calato, che si facevano largo, incolonnati nel gregge, tra i cordoli del palazzo parlamentare? Ebbene, l’assalto alle istituzioni – e relativa desacralizzazione di esse – sembra un leitmotif della nostra società, cosiddetta democratica. Dietro ad un gesto del genere non si celano soltanto l’odio, il furore o il malessere sociale, ma soprattutto un totale disconoscimento delle regole di convivenza civile, frutto di una visione individualistica dell’esistenza, e una conseguente delegittimazione degli organi preposti alla gestione dei problemi della collettività. Potrebbe sembrare un fenomeno che non ci riguarda, noi che viviamo sicuri, nelle nostre tiepide case… ma è soltanto la punta dell’iceberg di un atteggiamento di rivalsa, frutto di frustrazioni represse, nei confronti degli enti, e degli individui, che si sono assunti il fondamentale compito di contribuire al miglioramento della società.

Una di queste istituzioni è certamente la scuola. Cos’altro non è, infatti, se non una palestra di vita, un luogo in cui si apprende il rispetto dell’altro, la socialità, la gestione di ansie e paure, il confronto coi propri limiti e la scoperta delle proprie potenzialità. Insomma, il luogo in cui ci si prepara ad entrare nel mondo. Nel mondo, appunto. E qui cominciano i problemi. Per rimanere al nostro Paese, il problema numero uno, una volta usciti dal bozzolo scolastico, è l’ingresso nel mondo del lavoro. Ma quale lavoro? Se persino i plurititolati fuggono all’estero per cercare una sistemazione dignitosa, mentre quelli che restano si accontentano di lavori sottopagati senza dignità, figuriamoci quale prospettiva si schiude per chi si è crogiolato lungamente nel suddetto bozzolo, senza il minimo impegno e sforzo, convinto che gli andrà sempre bene e che mamma e papà, divenuti improvvisamente immortali, garantiranno al giovane virgulto l’eterna sopravvivenza economica. A questa scarsa percezione della realtà contribuisce la società dei consumi, che chiude i giovani in un penitenziario – come diceva Pasolini – per fuggire dal mondo e rifugiarsi in una virtualità fatta di facili compensazioni. Una bella “comfort zone” da cui non uscire mai, tranne in occasione di qualche fatale challenge.

Per venire incontro al problema occupazionale, lo Stato inalbera il vessillo dell’obbligo scolastico. In definitiva, si tratta di ritardare ad interim l’ingresso nel mondo del lavoro, costringendo sui banchi intere generazioni di ‘studenti’, che vorrebbero fare altro che sudare sulla versione di greco o faticare su un libro di storia, e approdare invece al primo lavoretto utile, per mettere poi da parte quei denari atti a foraggiare la società dei consumi. Nel cui penitenziario, appunto, sono stati chiusi sin dalla nascita. A contrastare il fenomeno della dispersione scolastica, ossia il precoce abbandono degli studi e la conseguente immissione parassitaria nella società, con relativo pericolo per la stessa, si alza di anno in anno l’asticella dell’obbligo, in modo da dilazionare il problema, possibilmente sino alla soglia dei quarant’anni. Si pone a questo punto un ulteriore problema, e cioè la gestione dei renitenti in classe. Come tenere tranquilli dei giovani sprovvisti di alcuna motivazione, di alcuna attitudine allo studio, contaminati dalla fatuità e dal disimpegno propagandati dal consumismo? Una bella gatta da pelare per quei poveri disgraziati che continuano a credere nel valore dell’educazione, ossia gli insegnanti.

Ma la soluzione è più facile del previsto. Eliminata la bieca didattica del passato, quelle delle orecchie d’asino e delle bacchettate sulla mani, si è imposta un’altra bieca teoria educativa, e soprattutto più subdola, che si può sintetizzare nella formula: “la pedagogia del senso di colpa”. In breve, il braccio armato dello Stato fallimentare, causa dello scollamento fra scuola e società, è un esercito di teorici della scuola pronto a colpire l’operato dei docenti – ossia gli unici che si sporcano le mani coi problemi reali degli studenti – insinuando con appositi corsi di formazione, lautamente pagati dal perso-nale docente, il più classico senso di colpa. L’alunno non studia? È colpa tua. Ha un blocco emotivo? Sei tu che lo traumatizzi. Ti ha mancato di rispetto? Si vede che te lo sei meritato, e altre amenità del genere… Se la scuola, da ascensore sociale, è diventata parcheggio sotterraneo, allora non può mancare l’autolavaggio del cervello, per far credere ai poveri disgraziati di prima che hanno sbagliato tutto, e farebbero bene a chiedere perdono dei loro peccati.

Di questo “vuoto di potere”, ossia la totale delegittimazione dell’istituzione scolastica da parte dei vertici della società, chi si è avvantaggiato, a parte gli studenti renitenti? E qui introduciamo un’ennesima questione, connessa alla rivoluzione digitale dei nostri tempi. Nell’epoca in cui ci si lau-rea a pieni voti su internet, dove la parola di qualunque imbecille è equiparata al discorso di un filosofo, l’autorevolezza di insegnanti e uomini di cultura, ossia di chi padroneggia un sapere frutto di fatica, sacrifici, disciplina, ma anche di straordinaria passione, è messa in discussione da chiunque abbia in mano un dispositivo e un’illimitata libertà di sparare cazzate. Le conseguenze materiali sono visibili, basta leggere un articolo di cronaca: maestra sputata in faccia dalla mamma di un bambino, giunta a prendere il figlio con mezz’ora di ritardo; docente di storia ferita con le sedie dai suoi studenti (che preventivamente avevano spento la luce!), insegnante aggredito dai genitori, appena accertatisi della non promozione del figlio. E non c’è bisogno certo di leggere il giornale, basta ricordarsi della collega picchiata per aver sottratto il cellulare all’alunna, e di quel simpatico genitore di cui sono riuscita a schivare un colpo di sedia…

Ma andiamo alle conseguenze immateriali e non visibili, ossia l’ingerenza delle famiglie nelle scelte educativo-didattiche dei docenti. Si assiste in questo caso ad una doppia esautorazione, sia nei confronti degli insegnanti che degli stessi figli: in poche parole, si colpevolizza il docente (“lei ce l’ha con mio figlio”) e si deresponsabilizza lo studente (“i bambini non hanno scritto i compiti”, dice una mamma di una classe di terza media!). Qui gli esempi si sprecano, dal “mi sembra alquanto improbabile che lei, professoressa, possa fare quest’attività” al “mi scusi ma per motivi religiosi vorrei che mio figlio non studiasse Dante Alighieri”. Se la scuola è diventata una comfort zone dove parcheggiare i pargoli in attesa dell’ora di pranzo, succursale del parco giochi dove far vivere gli alunni nel sogno a buon mercato – in una parola, nella menzogna – allora non ci sarà posto per virtute e canoscenza…

Le parole sono importanti, diceva qualcuno, e a volte l’aggressione peggiore non è quella fisica, ma l’utilizzo di parole buttate via senza alcuna consapevolezza. Prendiamo la parola “accanimento”: cercando sulla Treccani l’espressione è assimilata a “ferocia, furia, furore, odio, rabbia, spietatezza, violenza, disumanità, inumanità”. Interessante il contrario, ossia “benevolenza, clemenza, compassione, indulgenza, misericordia, pietà, umanità”. In poche parole, si tarpa le ali alla libertà valutativa del docente - che ha tra i suoi compiti anche quello di inculcare nei suoi studenti il concetto di meritocrazia - per imporgli invece un demagogico livellamento verso il basso che non troverà riscontro nella società, niente affatto inclusiva e veramente disumana, soprattutto coi soggetti più fragili, ossia quelli che a scuola hanno tentato in tutti i modi di sviare la paura del confronto, grazie all’avallo dei genitori. Altri due termini generosamente elargiti dalle famiglie sono “denigrazione” e “mortificazione” del malcapitato studente. Il primo riferito, etimologicamente, ad un annerimento. Il secondo, invece, ad una messa a morte. E tutto questo in presenza di docenti che si spendono ogni giorno per contrastare la pandemia culturale veicolata dai diseducatori ufficiali, che dall’alto al basso li colpiscono con un fuoco incrociato di pallottole.

E torniamo a Capital Hill. Diciamoci la verità, in ognuno di noi c’è uno sciamano vendicatore, che detronizza il potere e mette i piedi sul tavolo. Solo che nel nostro caso i nuovi maestri, ossia quelli che si sostituiscono ai veri per esorcizzare frustrazioni e complessi d’inferiorità, e soprattutto la paura del confronto, stanno contribuendo alla ‘crescita’ di futuri individui disorientati, analfabeti emotivi, vittime o carnefici della nostra società malata.



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