Controllava i lavori e andava ogni giorno nella sua villetta di Custonaci, dove era stata fatta costruire una celletta per Giuseppe Di Matteo.
Ci teneva a farsi vedere, a rifocillare gli uomini di cosa nostra, durante una tra le più macabre delle vicende di mafia. Giuseppe Costa, arrestato nei giorni scorsi a Custonaci, ha avuto un ruolo determinante nel sequestro del piccolo Di Matteo, figlio del pentito Santino, poi ucciso e sciolto nell’acido dalle bestie di cosa nostra.
Costa è stato condannato in via definitiva per concorso nel sequestro di persona, poi sfociato nell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Costa, anche attraverso l’intermediazione dello zio della moglie, Vito Mazzara, aveva fornito un importante contributo al rapimento del ragazzino.
Giuseppe Di Matteo non aveva ancora compiuto 13 anni, quando, nel novembre 1993, venne rapito in un maneggio di Piana degli Albanesi, tratto in inganno da un gruppo di sequestratori travestiti da poliziotti della Dia che gli fecero credere di poter rivedere il padre, in quel periodo sotto protezione e lontano dalla Sicilia per le sua collaborazione con la giustizia. Giuseppe Di Matteo verrà poi ucciso e sciolto nell'acido nel gennaio 1996.
La decisione di sequestrare il piccolo Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia, faceva parte di una strategia criminale ben precisa dei corleonesi.
Da un lato si voleva tentare di “arginare” il fenomeno del “pentitismo” dei mafiosi. Poi si voleva ottenere una ritrattazione delle dichiarazioni già rese dal padre del ragazzo, nonchè l’interruzione degli interrogatori che lo stesso stava rendendo alle procure di Palermo e Caltanissetta sulla strage di Capaci e altri fatti di mafia di quegli anni.
Il rapimento del piccolo Di Matteo viene deciso a Misilmeri, nel 1993, dai vertici di Cosa Nostra, dopo l’arresto di Totò Riina. C’erano Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano ancora latitante.
Bagarella e Messina Denaro contattano Vincenzo Virga, capo mandamento di Trapani all’epoca, affinchè concedesse l’impiego del suo territorio e di un suo uomo per il rapimento.
Qui entra in scena Costa, che mette a disposizione di cosa nostra trapanese la propria casa di Purgatorio, frazione di Custonaci, dietro richiesta dello zio della futura moglie, Vito Mazzara. Costa era consapevole che quel luogo sarebbe stato utilizzato per il sequestro di un bambino.
La Corte d’Assise di Palermo, nella condanna a Costa, scrive che “ha fornito, prima la massima assistenza ai muratori nella fase di realizzazione della cella di prigionia e ai carcerieri dopo, a favore dei quali si è adoperato per rendere loro il soggiorno più confortevole, foraggiandoli di tutto punto e non facendo loro mancare la sua assidua presenza, conscio del vincolo di solidarietà che lo legava a costoro”.
Costa ha anche assistito di persona all’arrivo del bambino a Purgatorio, chiuso nel portabagagli e incappucciato. “Tutte le mattine - si legge nella sentenza - si presentava puntuale nella casa-prigione, chiedendo ai carcerieri quali generi alimentari gradissero, provvedendo al loro acquisto. Spesso, inoltre, si fermava a conversare con loro, narrando particolari della sua vita privata”.
L’incarico di Costa era particolarmente delicato. Aveva rapporti quotidiani con soggetti di primo piano di cosa nostra. Rapporti che non sono stati interrotti neanche durante la lunga detenzione di Costa, dal 97 al 2017. E ha continuato a ricevere il sostegno economico della famiglia Virga. Dopo la sua scarcerazione, nel 2017, Costa torna a partecipare alle attività economiche del mandamento mafioso di Trapani, e sarà coinvolto nei fatti che rientrano nell’inchiesta Scrigno.
Ma sulla sua coscienza peserà soprattutto il terribile omicidio del piccolo Di Matteo.