Quantcast
×
 
 
18/12/2020 06:00:00

Il secolo breve dei lunghi miti

di Marcello Benfante

Lunga e diritta correva la strada, l'auto veloce correva...
Francesco Guccini

Quando, quasi trent’anni fa, mi recai a Napoli da Goffredo Fofi, per una riunione della rivista “Dove sta Zazà”, notai a casa sua una foto di John Garfield in bella e solitaria evidenza. Benché avessi visto in tv Il postino suona sempre due volte (1946) di Tay Garnett, non lo riconobbi, e chiesi dunque a Fofi chi fosse. Non ricordo esattamente la sua risposta, ma mi colpì in essa un’inattesa emozione.

Qualche tempo dopo lessi il ritratto che Fofi dedicò a John Garfield, l’eroe della sua giovinezza, “eterno Martin Eden”, in Più stelle che in cielo (e/o, 1995), uno dei suoi libri più belli.

Il cammeo si concludeva con parole particolarmente commosse: “Quando morì io piansi, come più tardi per la morte di Fausto Coppi o del Che”.

L’uomo e l’attore che per Fofi era “il primo dei ribelli”, il divo poco divo da cui sarebbero discesi tanti altri divi molto divi del firmamento hollywoodiano, era per me solo un volto pressoché anonimo di proletaria incisività, interessante ma non proprio bello, non esattamente indimenticabile.

Niente, insomma, che io potessi paragonare al “mio” Robert Mitchum, disincantato mito della sconfitta, col “suo sguardo opaco e la piega amara delle sue labbra” (scrive ancora Fofi in Più stelle che in cielo).

E niente (apparentemente) a che vedere con la bellezza inquietante di divi come Montgomery Clift, col suo sguardo vertiginoso e saturnino, insieme magnetico e sfuggente, e James Dean, con la sua apollinea e ossimorica ambiguità.

Più netto, più icastico, più conflittuale Garfield; più confusi, indeterminati e forse più enigmatici gli altri due (per non parlare di Marlon Brando, ché il discorso si complicherebbe troppo).

Per capire il rapporto tra John Garfield e James Dean bisogna ancora ricorrere a Più stelle che in cielo:

“Un modello Dean. Ma un modello di che? La rivolta del proletario degli slum, rappresenta da Garfield ma annacquata da Hollywood, è diventata con Dean interclassista, per la prima volta generazionale. Quasi uno stereotipo”.

Uno stereotipo, ma anche un archetipo. Una rivolta generazionale, ma anche eterna. L’insurrezione ancestrale contro il padre. Per amore (e per odio) del padre. La sommossa ciclica contro il potere dei padri.

“In questo senso, sì, James Dean è un antenato anche del nostro ‘68”, scriveva Fofi.

Un antenato pre-politico e pre-ideologico della prima grande rivolta generazionale. Non c’è ombra di coscienza in Dean. Solo la gioventù che si fa eterna nella morte improvvisa e precoce.

A James Dean, alla sua leggenda, al suo misterioso carisma, Goffredo Fofi, sempre vigile e acuto, dedica ora un nuovo libro, piccolo ma prezioso: Il secolo dei giovani e il mito di James Dean (La nave di Teseo, pagine 94, euro 10).

Il secolo dei giovani è il XX (del XXI forse si dirà che è il secolo dell’infantilismo o del rimbambimento). Un secolo terribile, il Novecento, che si sarebbe invece tentati di definire, più esattamente, l’Età del sangue, dei grandi massacri mondiali.

Scrive infatti Fofi:

“Gli incauti ed entusiasti studiosi che hanno osato chiamare il Novecento ‘il secolo dei giovani’ non pensavano certamente al numero dei giovani morti nelle due guerre (e nelle tante altre che lo hanno insanguinato, col pretesto di questa o quella ideologia) ma alle nuove forme di protagonismo giovanile che si affermarono in reazione alle due ‘grandi’ guerre e ai modi di neutralizzarle messi in atto nel mondo occidentale dopo la Seconda”.

Il secolo, dunque, dei giovani mandati al macello, che infine si ribellano in nome della vita, sebbene talora in forme autolesioniste e perfino suicide.

La guerra del Vietnam determina una drammatica rottura dei paradigmi precedenti che travolge ogni aspetto della società e della cultura e muta radicalmente il ruolo della gioventù americana e poi mondiale, la sua stessa accezione. I giovani renitenti alla leva per obiezione di coscienza “contrariamente al James Dean di Gioventù bruciata, avevano un causa ben precisa per cui lottare e rischiare la vita”.

La questione pacifista s’intreccia peraltro a quella razziale e a quella politica. Non si tratta più soltanto di ribelli istintivi, senza obiettivi, finalità, concezioni alternative della vita e del mondo, senza causa, insomma (Rebel Without a Cause è il titolo originale di Gioventù bruciata di Nicholas Ray del 1955).

Comincia, soprattutto a partire dal Manifesto di Port Huron del 1962, a manifestarsi una gioventù diversa e antagonista che si propone di inseguire l’irraggiungibile e d’immaginare un mondo nuovo da contrapporre a quello inimmaginabile prefigurato dagli orrori del presente.

È a questo punto che il secolo breve dei giovani diventa tale e la sua rivolta esorbita dal mero individualismo e riesce, scrive Fofi, a fondere “la spinta dell’io con quella di un’epoca, di una generazione, degli oppressi”. Durerà poco, purtroppo. Ben presto questo spirito soccomberà malauguratamente a quel “ritorno a Lenin” che uniformerà e soffocherà ogni spinta creatrice e libertaria dei movimenti.

Poi sarà la volta di un regressivo riflusso verso un gretto conformismo e un individualismo chiuso e ottuso. La gioventù oggi si dilata verso età che un tempo erano attribuite alla maturità (se non alla senilità) e nel contempo si restringe in un egoismo solipsistico. E ciò segnerebbe la fine di ogni specifico antagonismo giovanile, se non emergesse invece l’istanza rinnovatrice della generazione di Greta Thunberg, cioè di quei giovani che si avvertono drammaticamente senza futuro nell’attuale emergenza climatica ed ecologica planetaria.

All’origine di tutte queste mutazioni, o quasi, c’è quel sentimento nuovo, quella nuova idea di gioventù, che si formò a partire dal secondo dopoguerra.

Nella mitologia della città industriale (pensiamo a Dickens soprattutto) c’erano già state situazioni e narrazioni di una marginalità infantile le cui contraddizioni sociali drammatiche talora rasentavano la criminalità, ma “si trattava ancora di adolescenti dentro a storie di adulti”, non di protagonisti assoluti.

Un po’ alla volta questa “gioventù perduta” veniva poi alla ribalta. Non solo nella letteratura o nel cinema, ma anche in ambito scientifico-sociologico (del 1955 è, per esempio, lo studio di Albert Cohen Ragazzi delinquenti).

La delinquenza, subita e/o praticata, è il primo livello del disagio e della ribellione giovanili e trova un’esemplare interpretazione nella musica e nel cinema con Elvis Presley (Jailhouse Rock del 1957, Il delinquente del Rock’n Roll del 1958).

Si afferma intanto, a un livello premitologico, per così dire, il personaggio del giovane ribelle di estrazione proletaria che si dibatte fatalmente nelle contraddizioni della società della crisi e soccombe nelle sue inesorabili strettoie. John Garfield, come abbiamo visto, ne è un efficace apripista.

Ma sarà, un po’ più tardi, James Dean il “ribelle di nuovi anni, di nuove incertezze, di insoddisfazioni e rivolte legate solo all’età, e non al disagio e all’emarginazione sociale”.

La sua è una condizione assurda (nel senso che l’aggettivo assume nel fondamentale saggio di Paul Goodman La gioventù assurda del 1960). L’assurdo di una pace che non pacificata, di un benessere che non soddisfa, ma anzi crea nuovi e infiniti bisogni, di una bellezza che tormenta, di una giovinezza che sogna pulsioni distruttive, che aspira alla morte (tanto per semplificare un po’ un groviglio psicologico inestricabile).

Annunciato da un Marlon Brando, selvaggio “arcangelo rombante”, il mito di James Dean, “uno dei maggiori divi del secolo scorso”, si affermerà indelebilmente nel breve volgere di tre soli film (La valle dell’Eden, Gioventù bruciata, Il Gigante) e di un tragico incidente automobilistico. Diventerà l’immagine stessa della gioventù che brucia in una effimera, ma eterna, fiammata.

Non un attore dalle doti eccezionali, se perfino Elia Kazan, il regista che forse ne sfruttò meglio le potenzialità, a partire dal corpo, la gestualità incontrollata, l’emotività malinconica, ebbe a dire che era, nella sua istintività, “così stupido sotto così tanti aspetti”. Eppure, come pochi, egli seppe imprimersi nell’immaginario collettivo.

“E dunque: fu vera gloria?”, si chiede Fofi. Probabilmente no, almeno a voler porre la questione in questi termini, per così dire artistici o soltanto tecnici, se è vero che Fofi, riconducendo il modello di Dean, del suo fascino morboso, al suo “antenato plausibile”, ossia il Diavolo in corpo di Radiguet, ribadisce la superiorità di Gérard Philipe per eleganza e cultura.

Ma i miti, si sa, non si possono scrutare troppo da vicino né troppo in profondità. Se ne può tutt’al più seguire la parabola nel suo andamento enigmatico ed emblematico.

“Dean avrebbe oggi quasi novant’anni e probabilmente una lunga carriera alle spalle. Forse la sua nevrosi l’avrebbe distrutto altrimenti; forse sarebbe diventato un buon attore di carattere, in molti ruoli un po’ fissi. Chissà. Possiamo prevedere quale sarebbe stata la decadenza di Marylin – che già era iniziata – e conosciamo quella, a suo modo grandiosa, di Brando. Non riusciamo a immaginarne una adeguata per Dean, e ci vengono in mente solo idee non piacevoli. La morte lo ha salvato da tutto questo, tanto più in quanto l’ha colto nel suo primo e pieno trionfo”.

Che è poi un altro mito antichissimo. Quello della morte salvifica, che pietosa e feroce, sottrae l’eroe al suo fatale declino e lo consegna alla dimensione imperitura dei numi.