Sono duri i giorni di chi ha contratto il Covid e vive l’isolamento. Il virus è subdolo, insidioso, è capace di colpire molto più in profondità di quanto si possa credere. Quando pensi di essertene liberata, ecco che arriva e irrompe nel tuo corpo, nella tua mente, nella tua vita senza chiedere il permesso. E allora è grande senso di nausea, una profonda debolezza come se le tue gambe e le tue braccia fossero prive di struttura ossea, è una mano dai lunghi artigli che ti serra la gola. E allora è un universale senso di colpa, profonda impotenza, straniamento e sconforto. È il malessere fisico che si nutre di quello psicologico e viceversa, fermare questo processo di autoalimentazione tossica sembra impossibile. Invece non lo è.
Sono ormai giunta al 21esimo giorno di isolamento, isolamento che, forse per opera del destino (mi piace pensare), sto trascorrendo nella mia comunità d’origine in una casa inzuppata di ricordi e di Esistenza. Tanti sono stati i pensieri e le domande che nei giorni iniziali facevano aerobica nella mia mente. Cosa e dove ho sbagliato? L’ho trasmesso a qualcuno? Cosa mi aspetta? Erano i più frequenti. Poi ho trovato la giusta chiave: ho iniziato a vivere il tempo della quarantena impegnandomi a non dimenticare chi sono. Una Donna che non demorde, un’appassionata divulgatrice di Cultura, una ricercatrice tenace della Bellezza in tutte le sue forme e follemente innamorata della sua terra madre, una guida turistica con il senso della prospettiva carica di ottimismo per il futuro e sempre propensa all’elaborazione di idee alternative per contrastare il difficile presente, una cittadina rispettosa delle norme atte a contrastare la diffusione del contagio e, al tempo stesso, cosciente delle défaillance del sistema socio-economico-politico generale che hanno aggravato la situazione generata dalla pandemia.
Trascorro i miei giorni in isolamento ma non sentendomi mai sola. Parafrasando una citazione di Erri De Luca, uno dei miei scrittori dell’anima e della mente… uso l’ingegno per escogitare anagrammi, uno calza a pennello: isolamento. Il suo anagramma è: mai lo sento.
Ecco che il tempo dell’infinita attesa, dell’incertezza e della solitudine è diventato quello della decostruzione e ricostruzione di me stessa e di ciò che mi sta intorno, della speranza per il futuro e dell’analisi lucida del presente. Da una parte cerco di non eclissarmi nelle illusioni, dall’altra mantengo sempre praticabile la strada della Possibilità.
Ricordarmi chi sono significa mantenere una visione complessa delle cose. Sono sempre stata una persona che alla semplicità ha preferito la complessità. La verità è una strada a doppio senso. E allora ne viene fuori che il virus è infido e il Sistema pieno di storture che gli danno terreno fertile. La frittata è composta da questi due elementi e l’uno non è meno importante dell’altro. Penso che la lettura dello stato attuale secondo una distinzione netta fra il partito del “Non ce n’è Coviddi” e quello contrapposto del “Stiamo a casa, sono solo piccole rinunce. Chi esce è uno stupido e un untore! “ non funga e che semini ancora più odio e separazione in una società già di per sé parcellizzata. Questi sono tempi in cui, invece, abbiamo la necessità di far fronte comune, di comprendere le diverse necessità e istanze dei singoli e delle categorie, di guardare da diverse angolazioni e riconoscerci come parte di una stessa Umanità. Parte di un unico esercito. Il nemico è uno solo, è fuori e si muove veloce. La questione è complessa e di complessità necessitiamo per comprenderla e risolverla.
Il virus corre veloce, dicevo, la fame picchia duro. I poveri sono sempre più poveri e, in aggiunta, nuove forme di povertà si nascondono per esempio tra le partite Iva e i piccoli professionisti. Dati alla mano, il decreto rilancio ha raggiunto soltanto il 30% dei beneficiari che ne hanno fatto richiesta e quasi 8 lavoratori autonomi su 10 hanno riscontrato delle perdite di fatturato durante il 2020. I bonus messi in campo dal governo hanno attutito in parte il colpo ma non sono certamente in grado di compensare il danno subìto dai milioni di lavoratori.
Il virus è forte, il nostro sistema sanitario debole e paghiamo oggi l’assenza di una strategia reale che andava messa in campo a partire da maggio o quanto meno da maggio studiata e delineata. La medicina territoriale non è stata rafforzata, l’assenza di posti letto in terapia intensiva e di personale specializzato non è stata colmata (parliamo di 5 mila posti in terapia intensiva a fronte di 60 milioni di abitanti!), le falle nel sistema di tracciamento non sono state risolte, la sicurezza sui mezzi pubblici non è stata garantita.
Non dimentico chi sono. Costruisco percorsi con la mente, traccio linee immaginarie sulla mappa della mia amata Sicilia che disegno con la fantasia, dal balcone di casa attraverso luoghi e ne scovo di nuovi, nutro il sogno di potervi portare i miei ospiti. Alimento il desiderio di poter continuare a svolgere la mia professione. La professione a cui sono giunta con un preciso atto di volontà. Con sacrifici e determinazione. Una professione che, ahimè, non è stata considerata come merita da chi ci governa, sia nel corso di questa pandemia ma anche nel quadro generale del sistema. Siamo lavoratori a partita IVA, nella stragrande maggioranza donne, senza tutela alcuna. In media e in condizioni di normalità per circa 4 mesi l’anno non produciamo reddito, quest’anno la pandemia ci ha concesso un mese di lavoro! Come fa notare l’associazione di categoria GTI “i 1200 euro predisposti come bonus dal decreto Rilancio non sono bastati nemmeno per pagare i 3850 euro annui dovuti all’Inps, figuriamoci per sopravvivere senza un anno di lavoro” e il decreto Ristoro, sinceramente parlando, presenta delle lacune che non renderanno pienamente giustizia alla situazione di emergenza che stiamo vivendo. Ciò nonostante noi guide turistiche siamo quelle che in lockdown abbiamo ideato i tour virtuali, siamo quelle che continuano a studiare, ad approfondire argomenti. Siamo quelle che hanno fatto del turismo di prossimità una leva importante da sfruttare fino in fondo riuscendo a trarre tutto il possibile vantaggio da una situazione ostile e a dare al tempo stesso un segno di speranza alla società. Abbiamo incarnato quel “andrà tutto bene” che la politica non riusciva a materializzare.
Stringo fra le mani un biglietto della mostra dell’artista contemporaneo Banksy inauguratasi a Palermo lo scorso 7 ottobre. Un dono prezioso ricevuto per il mio compleanno. Una gioia che spero non mi verrà negata. Apprendo che l’ultimo DPCM del Governo ha imposto la chiusura di cinema, teatri, musei, mostre, biblioteche. Il silenzio e il buio sono piombati nei luoghi dove viene prodotta la Cultura. Chiudono quei luoghi in cui la Sicurezza e il rispetto delle norme di contrasto al Covid19 sono sempre stati garantiti. Cala così il sipario sulla Bellezza che, evidentemente, non fa profitto!
Ecco, io tutto ciò in questi giorni di isolamento lo tengo ben in mente. Ricordarmi chi sono significa questo.
Si fanno le 20.00 e anche la mia giornata, come quella di chi sta fuori, volge al finire. Anche oggi ho fatto il pieno di solidarietà e affetto… i miei familiari, i miei amici, i miei colleghi sono stati pura vitamina (il mio fidanzato, anche lui positivo, è ahimè fisicamente distante), ho letto articoli e ascoltato il TG, ho letto pagine di testi e visto documentari, ho ascoltato un po’di musica e osservato il cielo. Mi sono circondata di tutta quella normalità di cui mi circondo fuori. Ma in questi giorni, un livello particolare di empatia lo avverto con quella madre di famiglia che si dispera in piazza e pretende aiuto dalle Istituzioni, con la giovane dottoressa dell’Asp che è venuta a effettuarmi il tampone, con dolcezza e tenacia svolge il proprio mestiere che oggi più che mai è un servizio alla società, con la mia dottoressa che non si risparmia mai di rassicurarmi, a tutte le ore del giorno, con i miei colleghi che si barcamenano fra le maglie della burocrazia per ottenere il bonus e un’agenda sempre troppo drammaticamente silenziosa. Tutti loro sono parte di una medesima storia collettiva e penso, con sempre più convinzione, che la tenuta della nostra società in questo drammatico frangente dipende anche dalla solidarietà che riesce a esprimere.
Questa esperienza personale, questo evento (che farà parte delle pagine dei libri di storia dei nostri figli) mi ha insegnato che, come la quotidianità delle persone, anche le parole possono all’improvviso cambiare significato. Esser positivo, primo esempio fra tutti, oggi non è proprio una gran bella cosa! Al tempo stesso volgiamo la mente al termine “crisi”. L’etimologia della parola deriva dal verbo greco “krino”: separare, ma anche, in senso più lato discernere, valutare. Ecco che dobbiamo invertire la tendenza e utilizzare questa crisi come momento di riflessione propedeutica al miglioramento dell’attualità . Migliorare il presente e la società in cui viviamo non può essere più un auspicio, diventa una necessità impellente per non sprofondare nel baratro quando tutti, attorno a noi, navigano a vista o scagliano fulmini e saette denunciando un fantomatico complotto davanti la mappa dell’Italia ridotta a una mappa di Risiko.
Mi sono chiesta più e più volte dove e come ho contratto il virus, sono sempre stata molto molto attenta. Su un 101 pieno al 100%, premendo il pulsante del caffè lungo e non igienizzandomi subito le mani, in quelle file troppo serrate dell’imbarco, nei saloni del TTG di Rimini a cui sono andata colma di ottimismo e spirito di scoperta. Non lo so! E nei giorni successivi ho anche smesso di pensare che fosse utile chiedermelo perché farlo implicava colpevolizzarmi. Ho preso il virus semplicemente perché ho continuato a vivere, ho preso il virus svolgendo la mia professione, ho preso il virus facendo ciò che amo. Ho fatto pace con quest’idea. La verità del senso di colpa è divenuta sottile come una lastra di ghiaccio, ho realizzato che non sono onnipotente e che, ahimè, era semplicemente accaduto. Non dimentico chi sono. Sono parte di una comunità che vuole e deve continuare a vivere, sempre cosciente della criticità della fase e nel rispetto della collettività.
Mentre scrivo attendo che l’Usca mi chiami per somministrarmi il terzo tampone. Aspetto con serenità lo sviluppo degli eventi. Dovessi ancora sostare nello stato di quarantena saprei di certo come affrontare i giorni seguenti. Con la stessa ansia di vita, con la stessa rabbia lucida per il presente, con la stessa speranza nel futuro. La mia bella isola è fuori che mi aspetta per donarmi ancora tanto di sé stessa ed io sono prontissima a fare lo stesso per Lei. Sono tempi difficili e con la loro durezza ci stanno aprendo gli occhi. Almeno spero. Guardiamoci intorno e dentro di noi, questo è il miglior momento per svegliarci!
Chiara Paladino